Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Colpo di scena a un processo per omicidio: un vecchietto si presenta a rendere testimonianza spontanea e, sulla base del proprio infallibile orologio, smonta l’alibi dell’imputato (che è Roldano Lupi, e quindi porta scritta la colpevolezza sulla sua faccia da bellimbusto). Ma durante la deposizione l’avvocato difensore manomette l’orologio, che nei giorni seguenti comincia a perdere colpi: così il vecchietto si fa prendere dai dubbi, ci ripensa e scagiona il condannato poco prima che venga eseguita la sentenza capitale. Nel frattempo l’uomo ha conosciuto in prigione un vicino di cella che, prima di essere giustiziato, gli ha parlato di un’osteria dove lavora una graziosa cameriera: dopo la scarcerazione lui ci va e la conquista subito; decidono di sposarsi, vanno all’ufficio anagrafe per fare i documenti e ci trovano il vecchietto, che lavora lì e che per farsi perdonare agevola in ogni modo la loro pratica. Ma poi, nel corso della loro frequentazione, capisce come sono andate le cose... Germi al principio era così: ingenuo, confusionario, pasticcione, ma con ambizioni che il seguito della sua carriera avrebbe legittimato. La sceneggiatura è sciatta e piena di inverosimiglianze, i dialoghi scadono nel declamatorio (sembra un film d’anteguerra, non del pieno neorealismo), ma il soggetto è estremamente suggestivo ed evoca referenti alti: Dostoevskij naturalmente, ma anche Kafka (il senso di colpa alimentato da fatti minimi, la tragicomica burocrazia del palazzo di giustizia) e un pizzico di Poe (il racconto Il genio della perversione). All’inizio sembra un giallo giudiziario, poi pian piano diventa una vicenda metafisica che ha il suo fulcro in un oggetto emblematico come l’orologio: il vecchietto (Ernesto Almirante, in uno dei suoi pochi ruoli importanti) diventa la voce della coscienza, o il destino, o la morte che ci ha dato appuntamento a Samarcanda ed è andata lì a precederci, sicura che presto la raggiungeremo. Un esordio promettente.
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