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Steak

Regia di Quentin Dupieux vedi scheda film

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La recensione su Steak

di alan smithee
7 stelle

locandina

Steak (2007): locandina

Omologarsi ad ogni costo al gruppo per sopravvivere ai soprusi che si patiscono quando si è diversi, indifesi, succubi di derisione e violenza da parte del ceto forte e dominante.

Parrebbe un dramma sociale serio degno di dibattito ed approfondimento, non fosse che abbiamo davanti il secondo film di quel folle, geniale regista franco-canadese dal nome che fa ben sperare – Quentin, seguito da Dupieux, oggi più che mai simbolo di ironica, anzi sarcastica rappresentazione di come lo spirito di sopravvivenza dell’uomo - costretto a districarsi tra le maglie tentacolari di una società che spersonalizza e costringe a trasformarci in automi senza carattere, soldatini obbedienti e senza più ogni minima traccia di capacità critica autonoma - si difenda e trovi salvezza nel potere dell'immaginazione e della fantasia; spostandosi, in tal modo, in una dimensione in grado di proteggerlo e renderlo finalmente protagonista di un mondo astratto forse, ma che riesce a dominare tenendogli testa.

Quando l’ingenuo ed immaturo Blaise viene accusato di aver ucciso una banda di studenti teppistelli con un mitra (in realtà solo sottratto al suo amico sfigato e deriso George, vero autore della strage, ad un militare dopo un esilarante incidente causato dalla perdita del parrucchino (un incipit esilarante degno di Wrong), gli spettano ben sette anni di ingiusta detenzione in riformatorio psichiatrico. Esce nel 2016 e si trova senza famiglia (tutti fuggiti per il dispiacere ed il disonore da lui procurato), in una casa fatiscente, mentre tutt’attorno i suoi coetanei che contano si sono organizzati in una banda di tosti, i Chivers, tutti vestiti con jeans, scarpe lucide e giubbottino rosso, che si salutano con moine piuttosto complesse come in una danza tribale più comica che seducente.

Un plotone che arriva pure a sottoporsi ad operazioni di ricostruzione facciale, vere e proprie plastiche per adattare i rispettivi connotati ad uno standard ideale di bellezza che renda tutti simili e belli secondo i canoni e le mode comunemente accettate; e ad inventare un complesso, improbabile e pure violento sport di gruppo simile al baseball con palla quadrata e pestaggio obbligatorio e necessario. 

Insomma la sintesi di un incubo da standardizzazione ed omologazione che prende di sprovvista il nostro ingenuo protagonista, rimasto letteralmente fuori dal mondo per tutto il periodo di detenzione nel centro psichiatrico, e deciso pertanto a far di tutto pur di integrarsi.

Gli sforzi per entrare a far parte della gang sono alla base di un film dai tratti spesso esilaranti propri del miglior Dupieux, che tuttavia costruisce un perfetto terreno di lancio per un film che in realtà non decolla mai propriamente come ci si aspetterebbe da un autore così portato alla satira e all'esaltazione dell'assurdo.

Innegabile tuttavia che la pellicola presenti momenti davvero spassosissimi, fatti di una comicità trattenuta e apparentemente involontaria che il fantastico, devastato, insicuro, paticcione e piagnone protagonista, perfettamente reso da Eric Judor, lo stesso che appare pure come esilarante comprimario in Wrong, regge ed affronta sfoderando espressioni e tempi comici irresistibili.

Di fatto il film risulta come una idonea, adeguata preparazione a quel Wrong che ad oggi corrisponde, a mio avviso, all’apice qualitativo del folle regista ossessionato dalla realtà e dal sogno, e ancor più dai tentativi di proteggersi dalla crudezza e volgarità della prima con l'intervento salvifico, magari distorto e traditore, ma di certo rassicurante, del secondo.

 

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