Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Nella sua narrazione tradizionale, dove la destrutturazione del racconto cara al Gus Van Sant regista e autore (Last days, Paranoid Park) è praticamente assente, nella sua lineare alternanza tra passato e presente -efficaci flashback informativi, da un lato, e meno riusciti momenti calati nella magia (più lasciata intendere che effettivamente mostrata) della foresta, dall’altro-,
nel suo andamento discontinuo, che registra efficaci picchi emotivi come deludenti appiattimenti della medesima natura, La foresta dei sogni si rivela un’interessante variazione sul tema dell’elaborazione del lutto e dell’intimo dolore che lo accompagna, una compiuta, autentica riflessione sul rimpianto, che sempre domina le nostre esistenze, una parabola semplice semplice sulla forza del destino innanzi al quale non finiamo mai di scoprirci impreparati e del tutto impotenti.
Il film, che preferisce (non senza motivo) restare ancorato ad una messa in scena fortemente realistica (anche se la componente visionaria, seppure utilizzata in minime dosi, avrebbe giovato all’opera in termini di maggiore vivacità e coinvolgimento), si fonda su un'idea molto forte e, in fin dei conti, condivisibile, perché sancisce la supremazia dell’essere umano sul caso, sul caos e sull’incessante divenire che regolano la Natura tutta: poter scegliere il luogo, il posto e il tempo ideali/perfetti per morire. ‘Privilegio’, questo, di cui gode solo chi pone fine alla propria esistenza per sua mano stessa.
Ma il suicidio significa aggiungere l’estremo tassello a una vita trafitta da immane sofferenza non più sopportabile, significa imboccare l’unica via d’uscita ancora possibile in una situazione di assoluta disperazione, dove più nulla può apportare rimedio e tantomeno conforto.
È come una sorta di prezzo da pagare per usufruire del potere di pianificare la propria morte.
Apprezzabile l’allegoria sfaccettata della foresta, moderna selva oscura dantesca e insieme sorta di purgatorio in cui poter sciogliere quei grovigli di rovi spinati che imprigionano, opprimono e lacerano interiormente, in cui lavarsi/liberarsi di quei gravi affanni, sprovvisti spesso di un nome, che si portano dentro e sono impossibili da condividere.
Ma il “mare di alberi”, così recita il (bel) titolo originale, è anche luogo fisico -il mappamondo lo colloca ai piedi del monte Fuji, in Giappone- e al contempo luogo dello spirito. Una sconfinata coperta verde che non c’è, capace di trasfigurare la realtà ontologica e ridisegnarla secondo forme e consistenze canonicamente riconoscibili ma che tradiscono la vera essenza di cui sono fatte.
Ed è una zona limbo, un impalabile spazio bianco, dove rimanere confinati per un tempo indeterminato, impegnati a mettere in pausa la vita, mentre il corpo e lo spirito sono combattuti tra la volontà di risalire l’abisso in cui si è scivolati e il desiderio di lasciarsi andare definitivamente, farsi cullare da un seducente infinito nulla dal(l'assenza di) colore nero pece, abbandonarsi ad un sonno eterno che non contempla (più) sogni.
Dopo l’ultima pellicola di Tornatore, sul grande schermo si consuma ancora una volta l’eterno scontro-incontro fra scienza e metafisica, tra ciò che è empiricamente dimostrabile e ciò che appartiene alla sfera del soprannaturale, all’invisibile conturbante universo dei sensi, all’insoluto mistero dell'anima.
A quell’incorporea corrispondenza di amorosi sensi che, in mezzo alla razionalità imperante dell’epoca contemporanea, agli stuoli di scienziati che il mondo non si stanca di partorire, pare proprio non voler deporre le armi.
Ancora perfettamente in grado di aggiudicarsi l’ultima parola.
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