Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
La scelta del posto perfetto per morire (maledetto google).
Un'ultima fermata - viaggio di sola andata - tra le onde esistenziali del mare di alberi che si trasforma e si rivela in un'esperienza altra: una sorta di espiazione purgatoriale.
La discesa dell'uomo armato di pillole e sani propositi suicidi si sospende in una dimensione spirituale-(meta)fisica-onirica in balia degli elementi di una natura maestosa e animata, labirintica e asfissiante, da cui è inutile sfuggire senza aver prima compiuto il percorso necessario (di redenzione, autocoscienza, accettazione, comprensione) all'atto "finale".
Un sentiero della vita attraversato da immagini e pulsioni e manifestazioni corporee di morte: l'inatteso compagno di viaggio di cui "prendersi cura", i flashback progressivamente esplicativi, i ricordi ed i pensieri tutti, gli ostacoli terreni e le emanazioni dell'ambiente (rocce-acqua-pioggia-gelo-silenzio-simboli-sentori di "presenze") catalizzano una trasfigurazione identitaria.
Espiazione e catarsi.
Materia tanto affascinante quanto facile preda di derive ridondanti o stucchevolmente new age, ma che senz'altro non abbisogna né di eclatante spettacolarizzazione né di grevi battute sentenziose.
Eppure proprio la sostanza narrativa si dimostra vischiosa, riduttiva per contenuti e profondità, e sovrabbondante per smania di spiegare, di far tornare (il) tutto, facendo così precipitare racconto e corpo filmico su un terreno scivoloso che non può portare niente di buono.
Finché Van Sant è "libero" di attuare una rappresentazione in equilibrio tra efficace impatto visivo (il frusciare malickiano della natura, la percettibilità dell'anima della foresta, i movimenti fluidi della mdp, il governo delle luci) e scene dialogiche (del presente e del passato) in cui è senz'altro a suo agio (complice il lavoro sugli attori, e che attori), il film regge e attrae (si perdonano così anche qualche ingenuità e caduta di tono). I tempi e i raccordi del montaggio sono giusti, le facce pure, l'impianto scenico funziona.
Ma negli ultimi quaranta minuti l'opera frana inesorabilmente: il didascalismo eccessivo e la pretenziosità del testo livellano verso il basso qualità e forza di richiamo, tra impellenti necessità narrative (la perversa supremazia dello storytelling) che allungano/contaminano il brodo con irrilevanti soluzioni e accadimenti, e finali che si accumulano posticci protesi a sostenere/imporre tesi e costruzione "emozionale".
Un peccato. Difficile capire se e quanto il regista di Last Days sia o meno complice, o se semplicemente abbia dovuto subire lo script.
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