Regia di Dave McKean vedi scheda film
Appena visto l’ho subito pensato.
Di quelle strane – a metà tra il pozzo artesiano dell’oramai esperienza, ed il carso superficiale del gusto privatissimo che ci timbra il palato! – ‘giunture sensibili’, apparse, ascoltate ed accettate e che saldano oggetti distanti (apparentemente) e coagenti (in ombra fine). Che questo film di McKean, a cui non avevo fatto mai la ‘ola’ per il suo semicelebrato “Mirrormask”, ce l’ha una cosa lontana a cui tanto s’avvicina. E non è roba del cinema. Si chiama “Shiva Burlesque”, è l’esordio su vinile della band omonima. Annata 1987, ed è una musica di un tempo fuori dal tempo; preghiera post-punk sepolta dalla sabbia della clessidra delle ere.
Chi bazzica tra ‘le cose che non piacciono a nessuno’, avrà facile ragione nel collegare lo splendido cover artworking dell’ellepì ad alcune fantasticherie CGI di questo “Luna”, ma il cuore della questione – forse – non sta nemmeno lì. E’ che certe sofferenze espresse compiutamente nel film (con Michael Maloney e Dervla Kirwan a cucire e scucire pathos e sympathos, Ben Daniels in una terra di nessuno in cui è tanto facile salvarsi quanto perdersi per sempre, e la fresca Stephanie Leonidas – ‘motus straneo’ del dramma – a lavorare gli orli del ricamo), paiono davvero sorelle della carne di quelle inquiete visioni psichiche che fanno di “Morning”, “Two suns” e “Marysupermarket”, ballate che prendono l’anima per non renderla più.
Qui e lì c’è un IO danneggiato (tra il ‘dann’ato e l’amar’eggiato’) che risponde picche agli insulti della REALTA’, e cerca di costruire processi espressivi (l’operina di McKean è piena di richiami al furore espressivo) come unica possibilità di sopravvivere – o meglio, di intravivere – allo strazio. Una schiera di personaggi/fantasma (forse lo sono pure le ‘maschere antiche’ dei protagonisti che, quasi, alla fine cedono e cadono via), che popolano un mondo di FANTASIA, scogliera, foresta, campo aperto dove l’angoscia crea il mito della morte e cerca di possedere con l’annullamento.
Ho amato gli Shiva Burlesque, lo confesso. Lo confesso, ho amato anche “Luna”. Cosciente che nessuno dei due oggetti, distanti e fratelli di sé, hanno potuto, possono o potranno cambiare le carte in tavola e ridarci indietro ciò che è sparito per sempre.
Un film che farà sbadigliare i 20enni/30enni, pueblo oramai che usa il fantastico come pialla livellatrice di dimensioni spigolose, e che invece darà gioia a chi – dagli otto lustri in su –, conserva l’idea di una trama bastarda (polimorfa e claudicante, quindi benedetta dal diavolo in persona!). Briciole di un epos capace non di ‘fondare’ una storia (per quello esistono i Del Toro, i Burton, gli Jackson, gli Aronofsky), ma di ‘forarla’, di intrudere dentro di essa – si veda il bel meccanismo del precipitare dentro al senso del simbolo, che escogita Christine, e che la fa giungere fino all’amplesso del dictum –, infine di far sfiatare i diversi livelli di (ri)conoscenza e modellare – lievemente, astutamente – un canto nuovo alla vita.
Robe per gente come noi, insomma; dei ‘sapiens’ che hanno già milioni e milioni di anni sulle palle!
Buona visione.
“Ho bisogno di essere / Devo vedere / Sì, i frammenti delle foglie / Il mondo si dissolve / Sento l’odore del cielo / Ma non piango / No, non piango / La morte è una bugia / La morte è una bugia / Abbiamo bisogno di più tempo / Ed è tempo d’essere ciechi”.
(“Train Mistery”, SHIVA BURLESQUE)
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