Regia di Joshua Oppenheimer vedi scheda film
“Ramli probabilmente era una brava persona, ma cosa potevamo fare? Era una rivoluzione!”
J: “Che supporto avete avuto dall'esercito?”
“Aspettavano lungo la strada, col camion. Non venivano quaggiù.”
“Non sono mai venuti quaggiù.”
“Questa cosa la chiamavano «la lotta della gente». Così hanno mantenuto le distanze. Se l'esercito fosse stato visto fare questo, il mondo si sarebbe sollevato: «L'esercito sta uccidendo i comunisti!». Quindi, per proteggere la loro immagine, hanno fatto sembrare che la gente stesse sterminando i comunisti. Ma tutti sanno che dietro c'era l'esercito.”
Adi Rukun è un optometrista indonesiano nato nel '68, ovvero un paio d'anni dopo il colpo di stato col quale il generale Suharto sconvolse il Paese; nella repressione anticomunista che ne conseguì, prima ancora che Adi nascesse, suo fratello Ramli fu una vittima eccellente delle death squad.
Adi ha assistito per ben sette anni il lavoro del regista Joshua Oppenheimer, ovvero durante la gestazione del clamoroso “The act of killing”, in seguito a cui ha avanzato una folle proposta all'amico venuto dall'Occidente: incontrare i torturatori di suo fratello e filmare gli incontri, spinto non da sete di vendetta, ma dall'urgenza di sentire con le sue orecchie i responsabili dell'assassinio di Ramli assumersi le proprie responsabilità e riconoscere quanto le purghe del '65-'66 fossero profondamente sbagliate.
Nonostante la grande pericolosità del proposito, legate all'esigenza di tutelare se stessi, la troupe e la famiglia di Adi, Oppenheimer accetta; sfruttando il suo ormai eccelso insediamento in Indonesia e la professione di Adi, i due fanno visita a diversi paramilitari del Komando Aksi del periodo, fino a risalire (facilmente) agli esecutori materiali e ai loro familiari.
Le parole riferite davanti agli occhi tanto sofferenti quanto imperturbabili di Adi, già provati dalle ripetute visioni di materiale raccolto da Joshua e scartato da “The act of killing”, sono l'emblema della terribile ferita sociale che tuttora piaga l'Indonesia, a cinquant'anni dagli avvenimenti…
“Se fossi venuto da lei in questo modo durante la dittatura militare, che cosa mi avrebbe fatto?”
“Non puoi immaginare cosa sarebbe successo. Sotto la dittatura? Quando la situazione era tesa? Non puoi immaginare cosa sarebbe successo. Quindi… prosegui! Continua con questa attività comunista!”
Necessario compendio del capolavoro “The act of killing”, “The look of silence” ha proiettato il 42enne Oppenheimer in rampa di lancio, tant'è che sarà componente della giuria del Festival di Venezia che si terrà dal 31 agosto. Si è guadagnato pure la seconda nomination agli Oscar nella categoria Miglior Documentario, ma la vittoria non è arrivata nemmeno stavolta (forse inchiodare gli Stati Uniti e l'Occidente alle proprie responsabilità, morali e materiali, nell'eccidio indonesiano non gli è tornato d'aiuto, in questo senso).
Ma “The look of silence” non sarebbe esistito senza Adi Rukun: Oppenheimer, a partire addirittura dal 2003, è stato a stretto contatto con lui e la sua famiglia, inclusi i suoi anziani e devastati genitori, qui ripresi sovente nella loro quotidiana e rassegnata esistenza. Differentemente da Anwar Congo, protagonista di “The act of killing”, i preman che uccisero Ramli Rukun non sono andati oltre il materiale di repertorio; ma la loro descrizione in forma di duetto, gioiosa e dettagliata, dell'opera di repressione a sostegno del colpo di stato (nonché della mutilazione e dell'omicidio di Ramli) non ha lasciato indifferente Adi, che si è mobilitato per andare fino in fondo.
“Il passato è passato!”
Dicono un po' tutti così: assassini, sopravvissuti e cari delle vittime. Perché l'Indonesia è tuttora devastata dall'omertà e dalla paura, derivanti dal fatto che i paramilitari del tempo e i familiari dei sospetti comunisti vivono da sempre fianco a fianco negli stessi villaggi, se non all'interno della stessa famiglia; ma laddove i primi sono eroi nazionali, forti di un'impunità e di un ruolo nella storia che consente loro di sostenere fino alla morte le loro (pur deboli) convinzioni, i secondi tacciono per terrore. Grazie al coraggio di Adi, che adesso si è necessariamente trasferito insieme a tutta la famiglia e che gode di ottima considerazione per il lavoro svolto, adesso esiste un film che parla di questi ultimi.
Se “The act of killing” illustrava fantasie e pensieri degli assassini, “The look of silence” indaga dunque sullo stato d'animo delle vittime, le quali non cercano altro che ammissioni e revisioni di ciò che è stato, affinché l'Indonesia cambi davvero; ma entrambi i film, come Oppenheimer ricorda, parlano sostanzialmente di impunità, qui evidente nel costante invito a lasciare che il passato resti passato (prima di passare ai toni minacciosi). Ed è proprio questa (in)sicurezza di passarla sempre e comunque liscia ad alimentare le tensioni più forti, che in alcuni confronti crescono in maniera inaspettata e gelida; dalle domande posate ma pungenti di Adi scaturiscono risposte tremende, soprattutto da parte del facoltoso vecchio leader regionale del Komando Aksi. Ma anche l'anziana moglie e i figli dell'ormai defunto Amir Hasan (uno degli assassini di Ramli, che ebbe modo di dare alle stampe un libro di illustrazioni dei suoi omicidi da adottare nelle scuole dove insegnava) non sono da meno, arrivando a fingere di non sapere nulla delle attività di Amir e capovolgendo la relazione di supporto e collaborazione che avevano instaurato con Joshua.
Girato in uno stato di costante tensione preventiva, con tanto di macchina e bagagli a stazionare all'esterno delle abitazioni dei vecchi preman per essere pronti a fuggire, “The look of silence” è un film più intimista e meno scioccante del suo predecessore; ma, al pari di esso, è un lavoro necessario e doloroso, espressione altissima del potere del mezzo cinematografico e documentaristico.
“Che cosa succede quando lasci che le persone interpretino se stesse? Che cosa rende visibile che prima non lo era?” [Joshua Oppenheimer]
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