Regia di Joshua Oppenheimer vedi scheda film
Sotto l’egida etica ed economica di Werner Herzog ed Errol Morris, e con S21 - La macchina di morte dei Khmer rossi di Rithy Panh negli occhi, The Act of Killing era un dispositivo documentaristico rivelatorio, scardinante: i paramilitari indonesiani che tra il 1965/1966 torturarono a morte un milione di presunti comunisti in nome di Suharto, degli interessi dell’occidente e di uno strumentale radicalismo religioso, erano chiamati da Joshua Oppenheimer, in quel film, a raccontare le proprie terribili gesta, a rimetterle in scena. E loro le narravano come drammi gangsterici, storie di piccoli Cesare, trionfanti musical bollywoodiani. Tangibili, nelle loro parole, nelle immagini, erano le tracce dell’immaginario deforme di una nazione, in cui sadici perpetratori di morte sono chiamati eroi, cantati dal popolo e dalla televisione, e la vergogna, e la colpa, sono soppresse nel nome di un’assurda retorica condivisa, annientate nella torbida sagra di una bugia calcificata dalla Storia, cancellate dalle lenti accecanti dell’ideologia.
Qui, in The Look of Silence, Gran premio della giuria a Venezia 71, un aguzzino canta «perché dovrei tessere il filo se alla fine verrà tagliato?», altri due, con l’illogica allegria di cinici comici, ripercorrono le vie delle loro torture, mentre a scuola si insegna ai bimbi quanto crudeli fossero, quei rossi miscredenti (tra cui democratici scettici circa il sacco occidentale delle materie prime, intellettuali critici, sindacalisti, componenti della minoranza cinese), e quanto fossero giuste, ed eroiche, le loro uccisioni. Oppenheimer, in questa prassi marcia dell’ipocrisia, in questo controcanto di The Act of Killing, segue Adi, fratello di un uomo ferito da quelle purghe anticomuniste, sopravvissuto a stento e poi biecamente trucidato, e lo accompagna in visita agli antichi assassini e alle loro famiglie.
Adi è un optometrista, un ottico che misura la capacità di vedere dei suoi interlocutori. Ma (e la metafora è nuda, e bruciante) il loro sguardo sul passato resta lo stesso: i torturatori esaltano il proprio mito, ma quando posti di fronte al dolore dell’altro delegano la responsabilità dei loro atti a un ordine superiore, a un dettato della Storia («l’America ci ha insegnato a odiare i comunisti», «era la lotta del popolo»), si sdegnano perché il punto di vista della vittima è una questione d’osceno, che offende la scena sociale consolidata dagli anni. Adi è attonito. Oppenheimer registra. E in questo confronto, meglio che in mille parole, si legge sui corpi, nei gesti, limpidamente, come la Storia agisce, spergiura e mistifica.
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