Regia di Anatole Litvak vedi scheda film
Il telefono nella cinematografia di genere (gialli, thriller, horror) ha sempre avuto una grande rilevanza, elencare tutte le pellicole dove questo innocuo dispositivo si trasforma in implacabile generatore di inquietudine e terrore sarebbe impossibile, basterà citare il diabolico Ray Milland che ascolta i rantoli di morte della moglie Grace Kelly (Il delitto perfetto), il povero Colin Farrell rinchiuso in una cabina di Manhattan sotto il tiro di un folle cecchino (In linea con l’assassino), Ryan Reynolds nel buio di una bara con l’unica speranza di un cellulare mezzo scarico (Buried) e ovviamente la Drew Barrymore molestata dalla voce distorta di un sadico killer (Scream).
A questa brevissima lista va senza dubbio aggiunta la Barbara Stanwyck di Sorry, Wrong Number, da noi trasformato nel molto più enfatico ma meno calzante Il terrore corre sul filo, il film prodotto da Hal Wallis e diretto da Anatole Litvak è forse uno dei primi e più riusciti esempi di “thriller telefonico”, un perfetto meccanismo di tensione che a distanza di anni si lascia apprezzare con grande piacere.
Leona Stevenson (Stanwyck) è una donna ricca e viziata, dopo aver sposato l’aitante Henry (Lancaster) si ammala di cuore ed è costretta ad una vita da reclusa, il letto come unico giaciglio e il telefono sempre pronto per qualsiasi emergenza.
Una sera mentre cerca di rintracciare il marito, inspiegabilmente in ritardo, ascolta per un errore la conversazione di due uomini che pianificano un delitto, la vittima designata è una donna sola in casa (come lei) e l’omicidio sembra imminente, spaventata contatta prima il centralino poi la polizia ma nessuno la prende sul serio.
A quel punto Leona decide di usare il telefono per ricostruire i movimenti del marito sperando di mettersi in contatto con lui, sarà l’inizio di un tesissimo viaggio tra presente e passato, un viaggio a tinte fosche dove scoprire la verità può significare morire.
Litvak gira uno di quei film che si potrebbero catalogare come thriller da camera, considerata l’origine del soggetto, un radiodramma firmato da Lucille Fletcher e dalla stessa sceneggiato per l’occasione, la definizione è di certo corretta ma quanto meno riduttiva, perché se è vero che la spinta drammaturgica è di forte impronta teatrale è altrettanto vero che la regia di Litvak la innalza ad un livello superiore, trasformando il limitato spazio scenico in un vasto labirinto di paura e terrore.
La macchina da presa si muove sinuosa nella piccola gabbia dorata di Leona, dissolvenze e carrellate dall’alto verso il basso amplificano il forte isolamento di una protagonista che per tutto il film vive in uno spazio altro, lontana dalla realtà che esiste solo al di fuori del suo perimetro vitale, unico appiglio di stabilità e concretezza resta il fedele telefono.
Ma è la complessa costruzione narrativa a rendere il film davvero interessante, una storia che si svela attraverso innumerevoli flashback evidenziando di volta in volta le trasformazioni degli stessi personaggi, Leona ci appare inizialmente come una donna in difficoltà ma poi scopriamo il suo carattere egocentrico e possessivo, le sue ossessioni e prepotenze, la cella psicologica e fisica nella quale ha rinchiuso il marito, conquistato con il blasone del suo nome (il padre è un pezzo grosso dell’industria farmaceutica) e poi ridotto a poco più di un oggetto da portare in borsa.
Si arriva al punto di odiare questa donna così meschina e allo stesso tempo si teme per la sua vita, anche perché con lo sciogliersi dell’intreccio scopriamo che nessuno dei personaggi può dirsi veramente innocente, tutte pedine di uno scenario sempre più noir che segue con efficacia le regole e i topoi del genere, alla fine del viaggio non troveremo buoni e cattivi a cui prendere la parti ma solo vittime di scelte sbagliate e di egoismi personali.
A Litvak va il merito di aver trasformato il bel testo della Fletcher in un film dal grande fascino estetico (determinante la fotografia di Sol Polito, leggenda della Warner negli anni ‘30 e ’40), la sua è un opera che brilla per la notevole gestione della tensione e che resta coinvolgente malgrado una trama non lineare, la parte finale poi è un crescendo emotivo grandioso e si lascia ricordare per il suo freddo e spietato epilogo.
Due parole infine per la strepitosa Barbara Stanwyck, non è mai stata una bomba sexy da far girare la testa ma quanta personalità in questa attrice, quanta potenza nel suo sguardo magnetico, il film lo domina con prepotenza annullando un gigante come Burt Lancaster (limitato in parte dal ruolo), a quattro anni di distanza dal capolavoro La fiamma del peccato firma su un altra prova che da sola vale un’intera carriera.
Per questo ruolo ricevette la sua quarta nomination agli Oscar, fu battuta dalla Jane Wyman di Johnny Belinda ma non avendo visto questo film mi astengo dall’esprimere giudizi, del resto non vinse l'ambito premio neanche per la Fiamma del peccato e si dovette accontentare di un tardivo riconoscimento alla carriera nel 1982.
Piccola nota sul doppiaggio italiano: non credo esista una spiegazione logica al fatto che i nomi Leona e Sally (l’ex fidanzata di Henry) diventino nella nostra lingua Lena e Doris, vai a capire cosa è passato per la testa degli addetti alla traduzione dell’epoca; da anni ormai vedo i film solo in lingua originale ma in questo caso la mia edizione in Dvd (edita da Stormovie) non aiuta molto visto che i sottotitoli sono la copia esatta del doppiato italiano, per cui ascoltando in lingua originale senti gli attori pronunciare Sally mentre nei titoli leggi Doris, tutto molto divertente se non fosse che per godere di questi scempi si deve anche pagare il prezzo del Dvd.
Voto: 8
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