Regia di Peter Chan vedi scheda film
Standing ovation eccessiva e ingiustificata per Peter Chan, alla fine della proiezione del suo film fuori concorso presentato a Venezia 71, Dearest. Ovazione probabilmente ampliata dalla presenza stessa del regista e degli attori protagonisti, disposti elegantemente in Sala Grande a vedere l'ultimo importante apice del cinema strappalacrime e ricattatorio.
Dearest è la drammatica storia (vera) di due genitori divorziati a cui scompare il figlio treenne e che dedicano i successivi tre anni della loro vita alla sua ricerca, fino a un ritrovamento che getta tutto in ulteriori contraddizioni e strazianti dilemmi. Infatti il piccolo Pengpeng era stato rapito da un uomo che l'aveva portato con sé dalla propria moglie sterile, ignara a sua volta del danno commesso dal marito e dunque affettuosa nei confronti di un figlio di cui non si era mai chiesta l'origine. Ad aggiungersi alla situazione ultraproblematica, il presentarsi di una figlioletta anch'essa portata via da qualcuno (a detta del marito rapitore, abbandonata in un cantiere) e cresciuta come sorellina di un Pengpeng che, vista l'età infantile, ha finito per non ricordare più nulla dei genitori, e per legarsi in maniera affettiva e definitiva alla nuova madre. Il fatto poi che il marito rapitore muoia un anno prima del ritrovamento di Pengpeng non permette di rispondere alla domanda da dove provenisse davvero la bambina. Ma Chan non lo considera un problema, ed è pronto a scatenare un infernale meccanismo di strazio emozionale perdendo la delicatezza di tocco che poteva caratterizzare il giapponese Kore-eda nel pur simile Father and Son e cercando in continuazione la lacrimuccia facile, pensando probabilmente di disorientare lo spettatore di fronte alla terribile scelta: stare dalla parte dei genitori reali di Pengpeng, o apprendere e assecondare le volontà esasperanti e comprensibilissime di una nuova madre privata dei suoi unici affetti possibili (si ricordi la sterilità sovracitata che la caratterizza)?
Dearest dimostra che l'ambiguità e la contraddizione non bastano a fare un buon film. Siamo a livelli da La scelta di Sophie, proporre problemi impossibili la cui risoluzione può solo provocare confusione e dispiacere, nonché una definitiva parzialità. Come orientare il proprio giudizio? Come scegliere da che parte stare? La difficoltà però, intendiamoci, non proviene dalla problematicità della situazione, ma dalla natura straordinariamente insulsa dei personaggi. Un padre e una madre che non vanno più d'accordo per i motivi più scontati (probabilmente, in sottotesto, il differente ceto sociale), caratteri piatti orientati tutti solo e unicamente verso la propria tragedia, ma soprattutto lo sprezzo del ridicolo da parte di Peter Chan, che fa scalare alla "nuova madre" addirittura la parete esterna di un orfanotrofio per aggrapparsi inverosimilmente alla parte esteriore del sistema di condizionamento, per piangere di fronte alla visione della propria figlia (speriamo non si stia provando a scomodare la povera straziata O-Haru di Mizoguchi in qualche citazione, ma probabilmente no); che fa inseguire reciprocamente i vari personaggi, quando i genitori ritrovano il figlio e corrono per allontanarlo dalla madre adottiva; che fa riunire un gruppo di genitori tutti alla ricerca dei propri figli dispersi in una comunità di sostegno emotivo, genitori un po' meno incazzati di quelli di Lady Vendetta di Park Chan-wook, ma sempre abbastanza pazzi da rincorrere un camion solo perché esso trasporta un sacco che evidentemente al suo interno contiene un corpo vivo (per loro un bambino, nei fatti una scimmia). Se la follia paranoica li rende dunque straordinariamente pericolosi e dannosi, ai fini del film questo non è importante, e vuole essere un ulteriore passo verso la comprensione del triste dramma dei personaggi. E mentre tutti gli aspetti più risibili dei personaggi si accumulano fino all'inverosimile (ultima ma non ultima, l'incomprensibile e gratuita compassione di un avvocato nella seconda parte), non concedendo alcun tipo di empatia invero ricercata, un deus ex machina da non rivelare risolve "in parte" la vicenda, che però è tratta dal vero e dunque - secondo loro - inattaccabile. Ecco qual è il risultato dell'applauditissimo Dearest di Peter Chan: i dubbi vengono risolti, la storia conclusa, i conflitti tranquillizzati. Fino all'indicibile oscenità delle immagini dei veri uomini e donne coinvolti nel terribile caso di rapimento di infanti: sembra di trovarsi di fronte ad una puntata di C'è posta per te, piuttosto che di fronte a un film che lasciava sperare molto di più, quanto certamente meno melassa e ostentata disperazione. Spettacolarizzare pateticamente i sentimenti della gente: lo si sta facendo nel modo giusto. A due giorni e mezzo dall'inizio di Venezia 71, un (primo? ultimo?) terribile patatrac.
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