Regia di Daniel Barnz vedi scheda film
“… perché la vita stende, e chi è steso dorme o muore……”
Claire, la protagonista di Cake potrebbe ampiamente ritrovarsi nei pochi ma significativi versi di questa canzone, perché lei, donna adulta californiana, avvocato, moglie e madre di famiglia, sta vivendo un duro e dolorosissimo momento: quello conseguente ad un incidente d’auto in cui ha riportato gravi fratture al bacino (per un anno intero ha portato conficcati nelle anche due grossi chiodi) che la costringono al riposo forzato, lesioni alla pelle (bruciature alle gambe e cicatrici sul volto) e una profonda ferita al cuore causata dalla morte del suo bambino.
Incidente che le ha mandato la vita in frantumi.
Prodotto e interpretato da Jennifer Aniston, l’affascinante e divertente amica di pomeriggi e serate televisive, la fidanzatina un po’ strampalata delle nuove commedie romantiche yankee, autoironica quanto basta per non prendersi troppo sul serio e aggiungere al suo curriculum parti da svitata ninfomane, in Cake la incontriamo cresciuta e addolorata.
In un ruolo che scalfisce la sua bellezza da ragazza della porta accanto.
La osserviamo furiosamente sarcastica nel convivere con la propria tragedia privata, mentre fatica a rimettersi in sesto.
Ma è possibile che fatichi così tanto perché in realtà si rifiuta di ritornare ad una parvenza di normalità, che significherebbe buttarsi il passato alle spalle, voltare pagina, andare avanti.
Ripartire da zero o molto vicino dallo zero.
È lei, il principale ostacolo alla sua guarigione. Nell’anima come nel corpo.
Per il momento (che non conosce scadenza) sceglie di immergersi nella rabbia e di crogiolarcisi dentro, di annegare nelle overdose di analgesici così da anestetizzare l’insondabile sofferenza che le soffoca costantemente il petto, quella sofferenza che le procura incubi angosciosi, che le impedisce di trovare benefici dalle assidue sedute fisioterapiche.
Sebbene Cake affronti il tema strabusato della perdita di un figlio al punto da risultare respingente al potenziale spettatore, sicuro di non trovare nulla di nuovo se non l’ennesimo risaputo dramma da camera, l’opera di Daniel Barnz non si confonde nel marasma di tante altre operazioni similari e non scivola nell’oblìo, piuttosto, risulta originale e accattivante nel suo approccio al tema trattato.
A dominare la storia è la scrittura per immagini, le quali, attraverso un sapiente e curato lavoro sul montaggio, ci conducono progressivamente nel cuore della vicenda, esplicando con indiscutibile efficacia la condizione di devastazione psicofisica della protagonista.
Il film, infatti, partendo a piccoli passi, così piccoli che pare non muoversi affatto, almeno inizialmente, procede srotolandosi con fluida lentezza, e nel suo incedere pacato eppure nervoso agitato inquieto, acquista ritmo, sostanza e coinvolgimento emotivo.
E il deciso tratteggio fatto del personaggio interpretato dalla Aniston rende ulteriormente Cake un prodotto singolare, che alla fine fa piacere avere visto, perché riesce a suscitare una certa curiosità riguardo l’evolversi degli eventi e a tenere alta l’attenzione dello spettatore più paziente.
Non ci si innamora di Claire a prima vista. È una persona antipatica, a volte sgradevole. Una donna detestabile con cui difficilmente si entra in empatia, nonostante l’abbiamo conosciuta in circostanze tanto drammatiche.
Noi spettatori siamo partecipi di questo suo delicato frangente. E ci accorgiamo di quanto seriamente sia combattuta dentro: da un lato vorrebbe farla finita -non ha più ragion di esistere e respirare-, armandosi del medesimo coraggio che ha animato l’estrema scelta di una ragazza, moglie e madre come lei, e come lei frequentatrice delle sopravvalutate terapie di gruppo o sedute di sostegno, e dall’altro, si ritrova immobilizzata, incapace di decidere, di scegliere la fine da riservarsi;
è impantanata in un limbo oscuro, opprimente e scivoloso, che la consuma e l’annichilisce giorno dopo giorno ma del quale, appare chiaro, non può fare assolutamente a meno.
Claire non cerca approvazione per la condotta che ha adottato e nemmeno compassione.
Vuole gestire il suo lutto, la sua sofferenza a modo suo. E intanto, procede sulla difensiva, sfoggiando come una seconda pelle quel carattere spigoloso che la contraddistingue, per nascondere, prima di tutto a se stessa, la disarmante fragilità di cui è preda, misura esatta dell’entità del suo dolore.
Lo script opta per un tono narrativo misurato, sobrio, privo di enfasi (seppur ricco di lampi di follia, quelli che scandiscono la vita senza vita di una sopravvissuta mutilata negli affetti più cari), il più adeguato nell'illustrarci l’inerte, piatto, vuoto, d’improvviso arido e insieme tormentato quotidiano di questa donna piegata da un crudele destino.
Cake scandaglia il caos calmo conseguente a una tragedia e non intende affatto intavolare facili soluzioni, proporre scappatoie di comodo, inseguire smielati happy end per colmare l’abisso interiore di chi è chiamato a fare i conti, per il resto dei propri giorni, con una lacerante perdita di cui non capiremo mai, fino in fondo, il senso.
Semmai ce ne fosse uno.
Che ci bastona così ferocemente da stenderci al tappeto per un tempo indefinito, forse per sempre, forse no.
A noi la scelta: rimanere distesi, lasciandoci vivere e lasciando che gli altri guidino il nostro cammino al nostro posto, oppure rimettersi in piedi, a schiena dritta, e tornare a guardare con i nostri occhi la strada che ci resta da percorrere.
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