Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film
Antropologico e surreale, seducente e oscuro allo stesso tempo, il film è un formidabile apologo ironico e disturbante, grottesco e razionale, sul misterioso potere della carnalità più ancestrale che rimanda alla natura primordiale dell'istinto in cui le posticce convenzioni sociali non hanno più alcun significato. Assolutamente da recuperare.
“L’australiano” è decisamente uno dei più inquietanti esempi di un cinema che potremmo in qualche modo definire adesso “antropologico e surreale”, seducente e oscuro allo stesso tempo, che a mio avviso non ha perduto niente del suo smalto originale, nonostante gli anni trascorsi che semmai lo hanno liberato (facendolo così lievitare ancora di più) dal sospetto di una contaminazione furbetta, quasi una concessione alla moda del filone magico-stregonesco allora sulla cresta dell’onda, insinuata da qualche snobistico e superficiale giudizio d’epoca, decisamente poco attento e altrettanto meno accorto. Il film (un apologo ironico e disturbante, grottesco e razionale) è in sintesi l’analisi di condizioni e convinzioni contrapposte e incompatibili (o anche, come qualcuno ha affermato con appropriata intuizione, “una favola nera narrata da un idiota, piena di strepito e di furore”). Il risultato è (a mio avviso) davvero eccezionale. Dobbiamo dare atto al regista infatti di aver realizzato un’opera affascinante che potremmo ancora oggi considerare “di chiara e indiscussa derivazione espressionista” (ma filtrata dai tempi e dalle evoluzioni anche culturali, e come tale, non nostalgica, ma innovativa persino nella forma) capace di toccare le corde più nascoste dell’emozionalità dell’anima. Un’opera insomma che ha l’ardire di analizzare, con uno sguardo entomologicamente freddo e penetrante, l’impossibile coabitazione (e le frizioni devastanti che ne derivano) della normalità britannica con il terrore ancestrale dell’irrazionale che irrompe improvvisamente nella quotidiana normalità borghese della vita di ogni giorno. La storia (che trae origine da un bellissimo racconto di Robert Graves scritto e pubblicato agli inizi degli anni ’20) , ha per sfondo un tranquillo ed appartato angolo della costa inglese e narra degli scombussolamenti profondi conseguenti all’imprevedibile e inaspettato arrivo (annunciato da profetici quanto inusuali sogni premonitori) di un personaggio che potremmo definire “misteriosamente fatale”, tale Charles Crossley che sostiene di aver acquisito la capacità di uccidere con il proprio urlo, grazie allo studio dell’arte sciamanica degli aborigeni australiani, con i quali ha a lungo condiviso la vita e le esperienze. Installatosi nella casa di un musicista elettronico di successo, ne sedurrà la moglie arrivando così a disgregare il tranquillo e consueto menage di una coppia all’apparenza felice e appagata. La sua arma più minacciosa sarà ovviamente proprio “quell’urlo impossibile che uccide”; il suo tallone di Achille, in base alle antiche credenze, il timore che l’anima, uscita dal corpo nell’emissione vocale e costretta a rifugiatasi in un sasso, possa essere per questo fatta a pezzi e distrutta. Paranoia o spaventosa realtà? Forse semplicemente la coerenza del razionale che si scontra con l’imponderabilità della magia per riprendere il sopravvento attraverso “la logica del conosciuto” (anche questa una possibile interpretazione del finale che vede uscire vittorioso proprio il marito musicista che riuscirà a capovolgere la situazione facendo sì che “il sortilegio” si ritorca proprio contro il visitatore che l’ha evocato). I conflitti in gioco ovviamente sono numerosi e scomodamente ingombranti (i riti primordiali contro la psicanalisi e le religioni moderne per esempio, o anche la ragione contrapposta agli gli istinti ancestrali) ma Skolimowsky ha la capacità di controllarli senza lasciarsi sopraffare. Li utilizza anzi in maniera esemplare, ribaltandoli a suo piacimento e in base alla propria e personale visione dei fatti e delle cose (uno sguardo che non disdegna la fascinazione visionaria dell’insolito, ma predilige però l’aspetto più divertito e pungente dello scetticismo “grottesco”, che è poi la maniera migliore per “raffeddare la materia” e consentire un oggettivo raffronto fra l’arida ricerca parascientifica dell’arte moderna e i grandi misteri della tradizione fantastica). Indiscutibilmente significativa l’intuizione registica di rappresentare l’uomo che ospita l’urlatore “assassino” come un musicista della scuola concreta e facendone quindi un “raccoglitore di suoni,” un particolare questo decisamente non secondario che denota la raffinata intelligenza di un percorso denso di insolite illuminazioni introspettive. Già la prospettiva del procedere narrativo è singolare e abbastanza inusuale (il tutto è riferito proprio da Crossey durante una interminabile partita a cricket all’interno del manicomio nel quale è ospitato). Lo stile poi, pieno di rarefazioni enigmatiche e di fulminee accelerazioni è libero e imprevedibile come ogni altro elemento di questa pellicola e si conferma in perfetta sintonia con il risultato grazie anche a un ritmo incalzante,avvolgente e metronomico, capace di far galoppare la fantasia sul filo dell’astrazione e dell’assurdo, senza però mai scivolare nel ridicolo (e possiamo immaginare quali e quante trappole erano invece presenti proprio su questo versante in un “paradosso” di siffatta portata). Dobbiamo semmai sottolineare senza tema di smentita, che il vero “pezzo forte del film”, quello che più ammalia e scompiglia, è proprio il momento più esposto al rischio, quello in cui il pericolo del risibile era più elevato, corrispondente alla memorabile sequenza che vede Crossey prodursi “davvero” nell’urlo micidiale, la stessa nella quale le elaborazioni della nostra fantasia, devono trovare un attendibile riscontro realistico che “non può assolutamente deludere o suscitare perplessità” perché se ciò dovesse verificarsi, la scommessa finirebbe per essere irrimediabilmente perduta senza alcuna possibilità di appello o di recupero. Già questo risultato da solo, sarebbe quindi un traguardo meritorio ed assoluto capace di nobilitare l’impresa, anche in mancanza di tutti gli altri elementi positivi – cospicui e costanti - che contrappuntano il percorso e che abbiamo tentato di evidenziare in questa piccola (e certamente inadeguata) rivisitazione critica dell’opera. Gli interpreti sono tutti eccellenti. Merita una menzione particolare Alan Bates, il protagonista. Davvero un’altra prova superlativa la sua, un ritratto a tutto tondo di un personaggio ambiguo e difficile da rappresentare (ma gli interpreti di rango come lui, sono particolarmente stimolati dalle imprese difficili, quasi impossibili come questa, e ne escono sempre, come appunto nel caso in oggetto, da trionfatori assoluti). Dobbiamo però ricordare con analoga ammirazione anche le prove degli altri attori impegnati nell’impresa che non sono assolutamente da meno (Susannah York, la moglie fedifraga, John Hurt il marito musicista, e ancora Robert Stephens, Jim Broadbent e Tim Curry). L’ottimo adattamento dello script è opera dello stesso regista, coadiuvato da Michael Austin; l’appropriata fotografia è frutto dell'esperienza e delle qualità creative di Mike Molloy, mentre l’avvolgente colonna sonora è di Anthony Bancks e Michael Rutenforth con inserti elettronici realizzati da Rupert Hine.
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