Regia di Hsiao-hsien Hou vedi scheda film
A Time to Fall in Love, A Time to Fall. Un tempo per innamorarsi e uno per cadere.
Basta aver visto già A Time to Live, A Time to Die e il successivo Three Times per capire che Hou ce l'ha con il biliardo, e gli piace contemplarlo anche per poco con tutto il mondo umano che lo circonda. La cosa più interessante, e meno scontata, però, è che il biliardo non ha mai un ruolo fondamentale nella trama (forse un po' di più in Three Times), ma è l'elemento del contesto. Non il contesto temporale, quanto quello visivo, figurale, spaziale, non ricercato, ma venuto fuori spontaneamente dall'inquadratura. Hou non intesse gerarchie, i suoi film sono accostamenti causali e non necessari di situazioni ed eventi in cui i protagonisti si vengono a trovare, il più delle volte senza averlo pianificato, o senza aver associato a quel dato luogo una qualche eccessiva rilevanza. Il vento che trasporta la polvere del titolo è quello che riempie i campi lunghissimi realizzati dalla regia di Hou in Dust in the Wind, e in questi luoghi si muovono i personaggi, come su un vero e proprio palco filmico, spesso incrocio fra naturale e artificiale, in maniera non dissimile (ma comunque per motivi altri) dalle distese presenti nei film di Lav Diaz (comunque successivo a Hou). Il vento è un ciclico fatalismo che può circondare l'esistenza di un solo individuo (A Time to Live, A Time to Die) o di due individui innamorati (Dust in the Wind), ed è fatalismo perché il sentimento da affrontare costantemente è quello dell'amara e costernata rassegnazione. Si possono fare tutti gli sforzi di questa Terra per rompere i rigidi schemi e le costrizioni delle brutture di un mondo non accogliente, si può provare a commettere vendetta, a sopravvivere tentando di rimanere vicini gli uni e gli altri, ma è tutto destinato a tornare indietro, come in ringkomposition asfissianti ma fin troppo reali per arrivare a soffocare fino alla morte. Siamo tutti vivi, ma siamo tutti nel mondo, fin troppo definiti nell'indefinibile nostro sentire.
Infatti il film di Hou è assolutamente indefinibile, sfuggente, nonostante la sua estetica realista. Non succede niente di più di quello che è in se stesso, non si esce mai fuori dagli schemi, ma Hou cerca di imporsi maggiore libertà non consegnando immediatamente la risposta allo spettatore, ma costringendolo a interpretare e a partecipare emotivamente a una vicenda antispettacolare, destinata al fallimento e votata fin dal suo inizio all'inerzia. La tenerezza con cui si osserva il rapporto fra i due protagonisti, Heng e Wan, non va confusa per ingenuità, solo perché i due non si baciano né si toccano mai, ma dev'essere presa per quello che è, affetto disinteressato, lontano dalla carne e dai luoghi, isolato in un mondo aeriforme come quello che accoglierà per esempio i due protagonisti di The World di Jia Zhang-ke, una rottura rispetto alla trionfante incomunicabilità tra le persone stesse e tra i luoghi, monocromi ed inespressivi. E se molte immagini potrebbero essere prese come metafore (il percorso del treno come principio di una storia, l'accostamento alla coltivazione, nel finale, per inserire l'amore in quell'andamento ciclico di tutte le cose esistenti, visibili e invisibili), in realtà nessuna immagine ispira altro da sé, e rimanda sempre a sé stessa, colmandosi di senso nonostante il vuoto. L'operazione di Hou è semplice quanto ardita, estrarre la cinepresa dai luoghi avventurosi e movimentati dello schermo del cinema (che appare tre o quattro volte nel film) e portarla nel mondo di coloro che il cinema lo osservano, Heng e Wan come noi che guardiamo Dust in the Wind. E quindi, stratificando, Hou arriva a un grado zero di realtà, estasiando e commovendo nella maniera più umana, rivelando come, nella disperazione, si riesca ancora a destare sana empatia, nonostante la parassitaria indifferenza del reale. Concreti, vorremmo guardare altrove, ma siamo sempre qui.
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