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From What Is Before

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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La recensione su From What Is Before

di Kurtisonic
8 stelle

locandina

From What Is Before (2014): locandina

Fossimo alla ricerca di un cinema che si pone in maniera diversa e anticonvenzionale, saremmo ancora lontani dal poter circoscrivere il lavoro prodotto da Lav Diaz come qualcosa che aderisce in pieno a quella definizione. Il cineasta venuto dall’oriente e dal talento cristallino produce “un altro “ cinema, si traducesse il titolo del recente From what is before in termini meta cinematografici si potrebbe parlare di cosa c’ era ma soprattutto cosa dovrebbe essere la cultura dell’immagine. La sua forma espressiva scombina le coordinate spazio- tempo, sposta la loro percezione dentro la realtà che raffigura, da cui emerge una materia percettiva che per comodità continuiamo a chiamare cinema, ma che si concretizza verso un coinvolgimento totale dello spettatore chiamato a condividere la densità delle immagini. La storia, perché sia chiaro c’è ed è evidente, diventa creazione maiuscola di esseri comuni dove il loro quotidiano intacca parte di eventi determinanti, necessari per capire le ragioni e le aberrazioni di una comunità alle prese con il ripetersi di  situazioni che ricadranno puntuali su di loro. Ambientato in un villaggio nella foresta filippina, From what is before descrive i momenti che caratterizzano la vita degli abitanti in un arco di tempo di due anni, dal 1970 fino al periodo più cruento della dittatura del generale Marcos. Attraverso il rifiuto di sottostare alla banalizzazione dell’arte, che si disimpegna in favore dello svago e dell’intrattenimento di massa, Diaz cerca di recuperare una forma di coscienza che impedisca di liberarsi dalla realtà. Il luogo deputato alla visione cinematografica è la grande sala che unisce le persone in rito collettivo e condivisibile, al di fuori di essa dubito che From what is before sia fruibile, in home video sarebbe penalizzato in partenza, poiché nel caso specifico l’aura artistica dell’oggetto filmico verrebbe irrimediabilmente compromessa. Il tempo, la lunghezza di questo e altri film del regista sembra l’elemento cardine su cui orientare il personale gradimento , un quasi insormontabile ostacolo che frena la visione, perchè l’oggetto artistico oggi ha un tempo da rispettare, una scadenza, mentre il suo contenuto diventa elemento sempre più secondario…Invece la sfida temporale innanzitutto rappresenta la libertà del suo autore di sperimentare e proporre ritmi, tempi, vuoti, pause lontane dalla struttura mentale che la schizofrenia moderna, dal lavoro, alle relazioni, al divertimento, edifica e come un muro invalicabile la traduce in drammatica indifferenza. “Da cosa c’è prima” diventa una memoria di storicismi, religiosità, misticismo, politica, socialità, sentimenti. Il tempo non inteso come strumento operativo limitante e circoscrivibile, ma come unità espressiva vera e propria, senza la sua dilatazione non si ottiene la stasi visiva, l’osservazione intima, lo straniamento del particolare. Dunque la forma, la quintessenza del cinema di Diaz. Il film si apre con alcuni piani sequenza folgoranti, nei quali il particolare si ritaglia con nitidezza lenta e inesorabile il suo spazio di verità. Ciò che mostra l’inquadratura è il suo mondo ma la realtà si legge nel particolare, l’osservazione prolungata insieme all’esposizione diventano elementi vitali, veri. Allora magistralmente Diaz scombina l’immagine non appena lo spettatore osservatore se ne appropria, un dettaglio della figura che si è delineata viene richiamata sotto forma di un elemento presente nello scenario naturale, la forma di un vassoio che una donna trasporta sulla testa si ritrova in un albero sullo sfondo, o le sue gambe ripiegate davanti al panorama di valli lussureggianti che s’incrociano allo stesso modo, evocando così ritorni e relazioni d’immagine che simboleggiano anche gli stati d’animo dei personaggi. Emblematico il rapporto uomo –natura, che scaturisce da queste profondità fotografiche (dalla qualità elevatissima). Il singolo essere umano alla ricerca di una condizione esistenziale accettabile se ne deve distanziare per crescere per poi ritornarci rispettando quel ciclo continuo di vita e di morte dove realizzare la coscienza e la sconfitta di sé, che si tratti di porre fine alla propria e altrui vita o che sia l’unica via di fuga per sopravvivere ai ricordi e alle menzogne. Tutto ciò che riguarda lo scenario naturale, dalla foresta alle onde tumultuose non possono che demandare anche all’elevazione filosofica, alla domanda disperata di fede e della sua perdita. La vita nel villaggio viene funestata da alcuni misteriosi episodi irrisolti, e qualcuno ha già citato l’ideale collegamento con Il nastro bianco di Haneke, dove però la voce fuori campo del maestro cioè della cultura riconosciuta imprimeva una linea narrativa più netta. Qui invece Diaz si sofferma sull’intima umanità dei singoli personaggi, animati da uno spirito di sacrificio, di abnegazione al dolore, legati alla cultura popolare, ma anche da un disperato e inappagabile desiderio di vita. Le relazioni, i soprusi, i gesti arcaici, le violenze, l’illusoria speranza nei miracoli, i corpi bruciati e martoriati degli animali e di uomini, dai più semplici a quelli colti, uniti nella fine comune, nell’estinguersi stesso del ricordo e della memoria che diventano nel film di Diaz il bene supremo da cui è difficile staccarsi. Premiato meritevolmente a Locarno con il Pardo d'oro. 

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