FESTIVAL DEL CINEMA DI LOCARNO 2014 - CONCORSO INTERNAZIONALE - PARDO D'ORO
FROM WHAT IS BEFORE mi consente di affrontare per la prima volta finalmente in sala un'opera del filippino celebratissimo Lav Diaz. Opportunita' oggettivamente complicata considerata la durata media delle sue opere e la scarsa commerciabilita' delle stesse, anche non volendo considerare il fattore durata.
Ma Lav Diaz è un puro, un eroe del proprio stile e concetto di rappresentazione cinematografica, evidentemente estraneo o distante dalle problematiche commerciali tendenti a vendersi bene (pensate solo alle strategie di un autore furbo, oltre che innegabilmente talentuoso, come Lars Von Trier o pure Kim ki-duk, che non sto criticando affatto, ma solo constatandone la differente concezione che le due correnti possiedono nel porsi dinanzi ai propri fruitori); il filmaker filippino non si cura molto di piacere al pubblico e di vendere il proprio prodotto con le ragioni del profitto che le più scontate regole di marketing suggeriscono: pensate che se a Venezia Kim Ki-duk passava in sala ad ogni proiezione col suo eccentrico vestito-casacca per ricevere ovazioni - qui in sala prima della proiezione giunge solo una piccola delegazione del cast, formata da tecnici e due/tre attori; ma il regista non si trova: pare sia andato a prendere un caffe', e gira voce che passera' a salutare il pubblico alla fine...ma si tratterà invero solo di una mera illusione. Ancora a livello di marketing il film e' nudo e puro: nessuna locandina affissa sui muri, musica completamente assente, narrazione che non si cura di rispettare i tempi canonici di una pellicola: a Lav Diaz serve tutto il tempo per introdurci nella vicenda, qui più narrativa e concitata che in molti altri suoi film, ma disponendo lo spettatore ad una preparazione di oltre tre ore in cui l'occhio impara ad acclimatarsi agli orologi temporali di una foresta pluviale che non necessita delle regole ferree imposte dalla nostra civiltà. Imponendoci invece, da cineasta consapevole e fermamente convinto del proprio stile fuori ogni tempistica, regole dogmatiche essenziali, spartane, quelle che contraddistinguono da tempo, forse da sempre, il cinema del gran maestro: un bianco e nero da brividi in cui il verde prepotente e denso della foresta pluviale, che tutto inghiotte tranne il mare e la suggestiva scogliera del regolamento dei conti e delle coscienze, pare comunque riuscire a trapelare fuori, percepirsi tra le differenti tonalita' di un grigio che non ci sembra nemmeno piu' grigio.
Diaz piazza la macchina sempre e costantemente fissa in un punto per sequenze lunghe anche mezz'ora in cui non è la macchina che segue il suo epicentro, ma è quest'ultimo, cosa animata - uomo o anche animale - che si prodiga a centrare l'inquadratura, magari per gradi, provenendo da distante, guadagnandosi poco per volta il centro dell'obiettivo o il primo piano: un pò come la montagna che va da Maometto anziché viceversa.
Diaz non porta vanti una storia singola, ma la vicenda corale di un gruppo di abitanti di un "barrio" (ovvero distretto-quartiere) ad inizio anni '70, quando la dittatura imposta dal presidente Ferdinand Marcos dispose in tutto il paese la corte marziale per timore di rivolte clandestine, di fatto accesesi dalle ceneri incandescenti di movimenti di protesta formatisi ad opera di associazioni clandestine studentesche e di insegnanti o altri appartenenti alla classe piu' culturalmente evoluta e per questo non disposta a farsi dominare da una dittatura assoluta e totalitaria di stampo ottusamente e biecamente militare.
Seguiamo le vicende ordinarie e quotidiane di un pescatore e contadino a cui e' stato affidato un nipote ancora bambino da parte di un fratello sposato e con altri due infanti, ma con poche possibilita' economiche per mantenerlo; il calvario della giovane Itong, detta anche Pacita, alle prese con il dramma di una sorella Joselina, gravemente handicappata nel fisico e nella mente: uno stato vegetativo che non consente alla donna sana di allontanarsi di casa, se non per brevi circostante, fino a scoprire che la sorella, in sua assenza, viene regolarmente violata da un giovane vicino, produttore di liquore. Poi ancora l'odissea di un prete animato dalle migliori intenzioni, che sceglie scientemente la via della menzogna per salvaguardare equilibri ancora piu' delicati di quelli a sfondo prettamente religioso/morale. Fino ad una drammatica confessione e ad un omicidio perpetrato per l'incredulità e per la rabbia che colgono un uomo pacifico e disponibile, non appena viene a conoscenza di quell'atto inconcepibile di violenza su un incapace di intendere. Nel contempo, con l'arrivo delle forze armate e dei soldati, spesso composte da elementi volgari ed irragionevolmente impulsivi, ignoranti e pieni di sé per via dell'arma che li rende per una volta superiori agli indifesi avversari, e dunque pronti a far fuoco anche solo per una banale contrarietà, le prime vittime cadono a terra tra gli oppositori del regime, e ciò ci dà modo di ascoltare, tutto per intero nella sua ossessiva drammaticità, il percorso funebre cantato, tramite una infinita litania, da una anziana madre non appena questa apprende della morte del suo unico figlio maschio.
Come d'abitudine Diaz non ha fretta di procedere con gli eventi, e le sue vicende maturano e sbocciano nella loro piu' acuta e stordente drammaticita' quasi nello stesso momento, nell'ultima ora e mezzo del lungo affascinante percorso, una dietro l'altra dopo una sospensione magica e mistica di oltre tre ore di visione, dando vita nella seconda parte ad in una concatenazione di eventi (tra cui anche il bestiame trovato morto per le campagne con i pericoli di contagio) che il realismo di sottofondo rende ancora piu' drammatici e dolorosi.
MULA SA KUNG ANO ANG NOON (questo il titolo originale) e' il capolavoro di questo Festival: un film forte e stordente che ci ha distolto da un torpore preoccupante che fino a poco prima della sua programmazione pareva stagnare in questa valle cinematografica sognante che è stata Locarno 2014. E le foreste vergini ed impenetrabili bagnate da gocce di pioggia grosse come albicocche, alternate a risaie allagate, da scogliere battute dal mare in burrasca, sono la cornice dalla bellezza stordente di queste Filippine ancora incontaminate, umide e grondanti dove la vita si consuma in capanne e palafitte umili e provvisorie che nascondono vite umili senza via d'uscita, così come produttori di frodo di liquori o violenze impunite e disperazioni indicibili: elementi choccanti ma visivamente indimenticabili che divendono il passaporto definitivo per sancire la grandezza, finalmente ufficializzata dal premio più prestigioso, di Lav Diaz.
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