Regia di Bonifacio Angius vedi scheda film
Ci sono film che quasi annientano la voglia di recensirli. A volte è perché dicono già tutto. Altre volte, invece, le parole ci sfuggono nel momento stesso in cui sono concepite, come risucchiate da un vortice, catturate nel vuoto spinto che soffoca ogni suono. Davanti a film come questo possiamo provare a parlare. Ma la nostra voce viene sovrastata dal silenzio. Il nulla che ci investe, dall’altra parte dello schermo, è più forte del nostro desiderio di spiegarlo. Capita così quando la vita si propone a noi nuda, senza vergogna, avvolta solo nella sospirosa consapevolezza di sapersi tutta lì, confinata in un malessere che non è noia, non è banalità, eppure restringe fino all’inverosimile l’orizzonte della realtà. Peppino Manunta e il figlio Angelo sono i personaggi di una storia che non riesce ad esistere: un uomo anziano, che ha appena perso la moglie, ed un trentacinquenne che non lavora, e non sa fare niente. I soldi non mancano, ma tutto il resto sì. Nella periferia spettrale di una Sassari invisibile, i due uomini si aggirano a bordo della loro Mercedes inseguendo la vana speranza di una normalità che sembra loro totalmente preclusa. Il loro girovagare non ammette approdi, perché, laddove l’esito non è compromesso dai loro errori, interviene la sfortuna a scompigliare le carte leggere dei loro ingenui progetti. Il dramma è il vento che sparpaglia i pochi frammenti di senso strappati all’inconsistenza. Angelo è un disadattato, completamente incapace di costruirsi un futuro. Peppino un attempato maneggione illuso di contare ancora qualcosa. Sono rimasti soli a guardarsi negli occhi senza capirsi, il vecchio a spronare il giovane verso obiettivi che questi non ha nessuna intenzione di raggiungere. Il rimbalzo delle incomprensioni produce solo un’infinita tristezza, che ferma il tempo, immobilizzando la frustrazione in una rabbia primitiva, che prende eternamente la rincorsa per andare a sbattere contro il muro più vicino. Peppino è stato scaricato dagli amici potenti di una volta. Angelo si incontra solo con i compagni di bevute, con i quali, però, si intende sempre meno. L’emarginazione inizia quando ci si sente diversi, e si radica, nell’intimo, mano a mano che ci si rende conto che quella differenza corrisponde ad una irrimediabile condanna. Angelo si ritroverà presto inchiodato alla sua inettitudine, che forse è espressione di una colpevole resa a priori, oppure è il frutto puro e semplice di un’oggettiva impotenza. Gli eventi, le circostanze, gli influssi dell’ambiente faranno di tutto per rendere definitivo il blocco esistenziale che lo imprigiona, cancellando la sua identità di essere dotato di un’anima. Dietro lo spettro del suo corpo non ci sarà più niente: non un organismo attraversato da istinti ed emozioni, non una mente in grado di pensare e decidere, non un cuore pulsante di vero sentimento. Angelo diventerà un mostro, reso tale dall’assenza di contenuto, di sostanza umana, di reazioni che non siano riflessi di un maldestro ed estremo tentativo di conformismo, di livellamento, di abolizione di ogni elemento di disturbo. La perfidia è la bestia acefala che abita questo buio. È la ragione azzerata, che risponde solo all’impulso della negazione. È il regno del no assoluto, che fa finta di creare, per poter poi distruggere senza sforzo. A quattro anni di distanza dagli incanti atavici ed indecifrabili del suo SaGràscia, Bonifacio Angius ci ripropone l’immagine della sua Sardegna dopo averla spogliata di ogni mistero: la magia delle campagne non si posa sulle città, da dove anche l’aria sembra volata via per disperazione. Il mondo di oggi si chiude a riccio su una dimensione individuale priva di prospettive, che si culla, finché può, in un benessere visto come un rifugio e in una libertà usata come un alibi. Accorgendosi, troppo tardi, del deserto che ha ormai raggiunto la porta di casa.
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