Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Molti anni orsono feci un'escursione al Rifugio Garibaldi alle pendici dell'Adamello. Rammento la fatica di giungere alla meta compensata dalla buona compagnia. E ricordo la delusione per la giornata uggiosa e per il cielo velato che rendeva piatto il paesaggio su cui impattava il profilo della diga. Le acque grigie completavano la cartolina con un colore che poco aveva di naturale. Mi aspettavo una maggior varietà di paesaggi lungo il cammino e qualcosa di meglio della pietraia incontrata all'arrivo. Non ebbi modo di raggiungere il rifugio negli anni successivi e ricalibrare il mio giudizio, confortato dai raggi luminosi del sole e dal cielo terso che avrebbe colorato le acque del lago con il riflesso intenso del lapislazzuli. Quel che non sapevo allora era che molti anni dopo avrei visto un film ambientato nei pressi di quella diga trentasei anni prima della mia visita avvenuta nel 1995. Risale, infatti, al '59 l'esordio alla regia di Ermanno Olmi che scelse proprio quel luogo e quelle pareti rocciose per girare il suo primo lungometraggio. Alle sue spalle c'era già un numero ragguardevole di cortometraggi per lo più girati nell'ambito delle iniziative di EdisonVolta, la società elettrica per cui lavorava, che già dagli anni Venti aveva iniziato a documentare le proprie grandi imprese attraverso filmati, ora appartenenti ad Edison e all'Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa. Quale fondatore della sezione Cinema della società Ermanno Olmi aveva immortalato non solo le grandi opere ma, soprattutto, la vita di chi contribuì a realizzarle dando un senso profondo all'operazione che poteva dirsi arricchita di un valore sociale e culturale inaspettato.
Il primo film di Olmi perciò si riallacciava, gioco forza, alle previe esperienze lavorative, a quel lavoro iniziato per caso senza precisi studi registici alle spalle, a quella sensibilità agreste che lo avrebbe reso regista unico e difficilmente etichettabile nel panorama italiano.
Così eccomi, di nuovo, catapultato su quella diga con tutte le differenze del caso. Il clima estivo dei miei ricordi soppiantato dal manto nevoso del mese di dicembre ed una baracca pronta a volar via al primo alito di vento al posto del rifugio non ancora completato per l'arrivo sin troppo anticipato dell'inverno in quell'anno di grazia (industriale) in cui si compì la costruzione del muro di 27 metri che avrebbe abbracciato la valle col calcestruzzo.
Nella baracca in lamiera viveva Natale, il custode della diga, che assisteva alla trepidante partenza del collega in procinto di scendere a valle per le feste. Al suo posto doveva salire un altro operaio. Mentre Olmi documentava i preparativi per accogliere il sostituto le ore di ritardo si accumulavano dando il là alla narrazione. Sarebbe arrivato anche il pretesto per scombussolare l'ordinaria quotidianità di Natale raggiunto finalmente da un giovane studente di economia di nome Roberto Seveso che aveva preso il posto del ben più collaudato sostituto, diventato padre per la nascita inaspettata e prematura del figlio. Le prime ore erano di studio. Natale in qualche modo sentiva violata la propria intimità mentre il giovane uomo esplorava con la curiosa vivacità della giovinezza un luogo tanto isolato quanto fascinoso. Era dunque una partita a dama quella che si giocava nella scacchiera di un paesaggio naturale tanto bello quanto difficile da sopportare, tanto ascetico quanto furente nelle forze della natura che si scagliavano su di esso. Era una partita che Natale aveva condotto secondo la propria strategia, rimanendo coperto, senza esporre il fianco all'allegra baldanza del suo singolare ospite. Pian piano però il giovane Roberto aveva preso il comando
e pur lasciando qualche pedina sul campo aveva fatto piazza pulita delle armi sfoderare da Natale, un uomo di mezz'età, liso e introverso che poteva esser suo padre.
Era stato decisamente più semplice, per Natale, imporre vittoriosamente, la propria abilità di gioco con il collega appena sceso in paese. Tac, tac. Due mosse e la partita era vinta. Col ragazzo non gli riusciva di capire cosa provasse, diviso tra repulsione e quella naturale simpatia per un giovane sbarbatello senza esperienza che inevitabilmente gli ricordava se stesso da giovine.
Approfittando del deserto candido della montagna affiorava dal ghiaccio duro di una rispettosa ma forzata convivenza il dolce ruscelletto di virili sentimenti con il quale, probabilmente, Ermanno Olmi voleva artificiosamente ricreare la relazione padre/figlio di cui non poté godere per la morte prematura del genitore durante il conflitto. Alla fine della tormenta i due uomini avevano condiviso il freddo gelido della neve e del vento, la luce fioca ma rasserenante dei candelabri e soprattutto la protezione divina assicurata dal luogo sacro che dava loro protezione nelle ore buie della tempesta.
Ermanno Olmi riuniva, in un esordio maturo e folgorante, tutti gli elementi del suo cinema. Vi trovavano dimora lo spiccato senso di religiosa spiritualità del suo credo ed il perfetto equilibrio raggiunto nella rappresentazione dell'uomo al cospetto di una natura indomabile. Benché ambientato tra le nevi delle Alpi Olmi non si dimostrava necessariamente ostile di fronte al progresso rappresentato da quell'enorme calderone di cemento che raccontava dall'interno con inquadrature capaci di renderne l'ingegno tecnologico più che la naturale possanza. La capacità del regista di rendere al meglio la maestosità dell'artificio industriale proveniva da un background concreto a cui non corrispondeva una forma di repulsione per l'intervento umano sulla natura. Si era alla fine degli anni '50. Il boom economico era alle porte e molti accoglievano la crescente operosità del paese come un buon segno dopo anni di morte e sofferenza. Olmi non mancava comunque di omaggiare il paesaggio nella rincorsa ad una lepre fuggiasca o nell'arrendevolezza della neve al passaggio degli scii. Gli interni, quasi a dimostrare l'attenzione posta sulle relazioni umane, erano teatro privilegiato dell'indagine sociale. Oggi verrebbe da riconsiderare i semplici gesti quotidiani immortalati dal regista bergamasco come il documento di un'epoca passata a cui lo stesso Olmi guardava con tenerezza e nostalgia ben consapevole che il mondo di Natale stava lasciando posto a quello di Roberto. Cristallizzato in un momento perfetto l'incontro tra i due assumeva le sembianze di uno scontro generazionale e di un buffo quanto improbabile incontro.
Se dovessi averne l'occasione risalirò un giorno quel sentiero. Entreró nella chiesetta eretta in memoria dei soldati caduti nel 15/18 e anziché pregare chiuderò gli occhi. Immobile sorseggerò una tazza di latte e grappa e mi lascerò andare alla dolce tenerezza di una notte complice e irripetibile.
RaiPlay
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