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Rocks in My Pockets

Regia di Signe Baumane vedi scheda film

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La recensione su Rocks in My Pockets

di OGM
8 stelle

È meglio buttarle via, quelle pietre che sono rimaste in tasca. O forse no: sono un lascito di morte, ma hanno anche il pregio di un cimelio di famiglia. Un valore affettivo e morale. Un monito che è anche un marchio di fabbrica, la bruciante impronta di un’appartenenza. Signe vuole ricordare bene da dove proviene. Intende riscrivere la sua storia di “pazzia ereditaria” con caratteri che sembrano incisi nella roccia: segni stilizzati, abrasioni dalla superficie porosa, scavi in cui le ombre cangianti possono creare illusioni di plasticità, metamorfosi, iperboli, improvvise sparizioni. La follia, in fondo, non è che un’indisciplinata forma di magia. Rozza e selvaggia, ma anche struggentemente sobria, nella sua mania di ridurre tutta la realtà al rude scheletro delle proprie sensazioni. Il mondo si fa piccolo e sfuggente, al passaggio di quelle idee così forti e stravaganti da incutere timore: tutto si ritrae nell’ombra, davanti all’espressione di quel genio che abbraccia ogni cosa nella scarna perentorietà di un unico principio: io soffro, io non capisco, e quindi sono. Signe Baumane sa che, per raccontarsi con sincerità, bisogna smettere di pensare. Occorre, invece, calarsi docilmente nella incomprensibilità degli eventi, che devono essere guardati con il distacco dell’obiettività, mentre, dentro l’anima, ravvivano un dolore sempre presente. Si devono tenere gli occhi spalancati, come le tante figurine di questo cartone,  confondendo l’attenzione dello spettatore con lo sgomento del personaggio. La vista è ingrandita dallo scrupolo di cronaca, e, dilatandosi, si distorce come per reprimere un male interiore. La chiarezza fiorisce come una pianta mostruosa, che germoglia in fantasma, in allegoria, in metafora, spaziando nell’assurdo, senza ritegno. Uomini e donne si lasciano plasmare dai suoi capricci, e così diventano gli strumenti di un progetto infernale, che induce prima euforici deliri, e poi tramuta l’esaltazione in un impulso di autodistruzione. I voli della fantasia sono la premessa di una rovinosa caduta: un attimo prima di farla finita, ci si sente straordinari. Quel gesto è l’estrema sottolineatura della propria unicità, inconciliabile con la normalità della gente che vive non per affermare sé, ma per servire la stessa vita. In questo film gli eroi tragici sono quelli che si impegnano ad esistere, fino all’ultimo, esclusivamente nella dimensione del sogno. La nonna di Signe restava a lungo affacciata alla finestra, a mirare il vuoto. Sua cugina Linda vedeva ovunque solo vittorie, desideri realizzati, gioie fittizie che si facevano beffe della squallida evidenza. La piccola Irbe, a sua volta, amava chiudersi in un silenzio refrattario alle voci umane, sensibile solo all’astratta perfezione della musica. Quella che i medici, un giorno, hanno chiamato schizofrenia non è niente altro che una rudimentale semplificazione: Signe disegna una verità ricondotta ai suoi tratti essenziali, inquieti e malleabili perché estranei al rigido artificio delle regole.  Gonfiarsi, schiacciarsi, ritirarsi nell’angolo o uscire dai margini sono le naturali manifestazioni di una vitalità che segue il profilo ondeggiante della percezione, in cui si alternano fiammeggianti picchi di emotività  e gelide valli di indifferenza. In questo film l’animazione è la diretta proiezione poetica di una visione libera e personale, che non ha paura di mostrare le proprie aberrazioni, e, anzi, le sceglie come guide fedeli e spregiudicate, nel suo acrobatico giro attraverso i labirintici misteri della diversità.  

 

Rocks in my Pockets ha concorso, per la Lettonia, al premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.

 

scena

Rocks in My Pockets (2014): scena

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