Regia di Shawkat Amin Korki vedi scheda film
La verità ha un percorso difficile. Anche al cinema. Anche quando il peggio sembra passato.
Hussein ci prova. Hussein ci crede. Il suo film deve essere girato, costi quel che costi. In ballo non c’è solo l’arte. Qui si tratta di far luce sulla verità, una delle solite verità scomode che i voltafaccia della storia non hanno il diritto di cancellare. Del resto le tracce del passato sono ancora lì, incise nella roccia. Scavate a forza nelle pareti scrostate di una prigione. Quei muri, contrariamente al regime di Saddam, sono ancora in piedi. Intatti, si potrebbe dire, a dispetto dell’usura del tempo, dell’insulto della dimenticanza. Le celle risuonano ancora del dolore delle deportazioni, delle torture, delle esecuzioni sommarie. I curdi hanno lasciato lì le loro voci. Adesso qualcuno le deve pur raccogliere. Un regista, figlio di un cineoperatore arrestato per aver proiettato un film proibito, si sente in dovere di ripetere al mondo le urla soffocate del suo popolo. Anche se questa non sembra voler ricordare. Sinur vorrebbe essere la giovane protagonista della sua opera. Suo cugino – e futuro marito – non ne vuole sapere, di darla in pasto al pubblico, di vederla coinvolta in scene che comportano violenza, anche se finta, o contatti fisici, anche se limitati ad una fraterna stretta di mano. C’è di mezzo il buon nome di una famiglia, l’onore di una ragazza. Il vecchio resiste al nuovo. Lo combatte strenuamente, all’ultimo sangue, nella sua volontà di ribellarsi a ciò che è sempre stato, ma che merita, una volta tanto, di essere distrutto. E così la libertà continua a contorcersi, nella polvere, per sottrarsi al perverso abbraccio della menzogna, della retorica, dell’apparenza che offre un decoroso rifugio alla barbarie. Questo film iracheno ce la mette tutta, nel riprodurre il tormento di un’idea costretta a dibattersi nell’ombra, fra mille disagi e sventure, ostacolata da tutti, compresa la sorte. L’impresa di Hussein non fa che inciampare nei trabocchetti di una realtà refrattaria al cambiamento, in cui ognuno – ricchi e poveri – bada solo a sé, e non sempre nel migliore dei modi. Al centro del discorso di tutti c’è il denaro – di cui ognuno ha bisogno, per sopravvivere o per sfondare. Solo Hussein e Sinur hanno il pensiero rivolto altrove, all’obiettivo sfuggente di dire, finalmente, ciò che deve assolutamente essere detto. Intanto gli eventi remano contro: l’eccesso di sfortuna sembra la sinistra allegoria di una situazione politica e sociale goffamente invischiata nell’impossibilità di riemergere dignitosamente dalle umiliazioni subite, riacquistando un’identità umana completa, affrancata dalle marchiature etniche, dall’emarginazione in cui gli ultimi restano miserevolmente confinati. Il Paese, una volta abbattuto il tiranno, non si è mosso. Manca la voglia di modernità vera, di quella che si misura in valori morali autentici, e non in strumenti tecnologici o in miti televisivi. Il Kurdistan sembra in preda ad un incantesimo, che preclude, per limiti materiali o ristrettezza di vedute, lo sguardo verso il futuro. La breccia che Hussein tenta di aprire è una forzatura sgradita al generale immobilismo, che chiude ermeticamente i cuori. Sono due quelli che, invece, non smettono di pulsare, e, anzi, a dispetto dell’imperante cinismo, amplificano ed accelerano i loro battiti. Entrambi, con la loro scelta, stanno minando la propria felicità familiare: alle spalle hanno affetti che, per quanto forse profondi e sinceri, non hanno il coraggio di seguirli su quella strada. Ci sono amori che, nonostante tutto, non possono capire. Questo dramma, antico e universale, che investe le opposte ragioni dell’anima, è tanto intramontabile quanto insolubile. Il dilemma, che spesso ha alimentato la poesia più raffinata, astratta e solitaria, si trova qui ad intrecciare faticosamente i passi con quelli di una umanità ancorata al suolo, per necessità o per mentalità, lungo una storia dai tratti parimenti terreni e persino banali. La trama attraversa lo squallore, ne assorbe le ruvide fibre, però non demorde. E fa propria la rudimentale persistenza delle parole che la disperazione ha graffiato nel cemento.
Memories on Stone ha rappresentato l’Iraq agli Academy Awards 2016.
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