Regia di Ernesto Gastaldi vedi scheda film
“Che bello, senti che pace! Nessuno che ti rompe le scatole. Questi sono week end!”
Un po’ “Cane di paglia” alla romana (ma il film italiano è precedente), un po’ spaghetti western modernizzato (le motociclette al posto dei cavalli, la spiaggia al posto del deserto, non mancano nemmeno la fisarmonica, chiacchierate davanti al fuoco e i duelli). Purtroppo questo debolissimo “La lunga spiaggia fredda” di Ernesto Gastaldi che, come regista, conferma di non essere mai all’altezza delle sue sceneggiature migliori (nello stesso 1971 aveva firmato, tra gli altri, anche gli script di “La corta notte delle bambole di vetro” per Aldo Lado, “La coda dello scorpione” e “Lo strano vizio della signora Wardh” per Sergio Martino), resta a distanze siderali tanto dal capolavoro di Sam Peckinpah (e ci può stare) quanto da un prodotto di media qualità del genere che ha fatto la gloria anche internazionale del nostro cinema (e questo forse è un po’ più grave). La trama è presto detta. Harry e Jane decidono di trascorrere un week end nella loro casa isolata sulla spiaggia, anziché andare sulle piste da sci con una coppia di amici, come invece avrebbe preferito Jane. Harry spera in questo modo di recuperare un matrimonio in crisi che ormai si trascina stancamente, mentre Jane è distante ed annoiata, persino infastidita dalla presenza di un marito che forse non ha mai amato e di cui respinge le ripetute avances. Complice una corsa mattutina sulla spiaggia di Jane, quattro balordi motociclisti, campeggiati lì vicino, risvegliano i loro istinti e, ben presto, si presentano al cottage per soddisfare i loro animaleschi desideri, chiedendo il conto proprio a Jane, ripetutamente violentata. Il week end per la coppia si trasformerà in un incubo, ma per la donna avrà anche inattese conseguenze, soprattutto nel rapporto di complicità che stabilisce con Fred, il fascinoso leader dei vagabondi.
Al di là di una storia che, dopo un incipit ovvio ma quanto meno curioso ed inquietante, purtroppo prende presto una piega improbabile, con una svolta romantica ai limiti del delirio, il vero punto debole del film è la recitazione degli attori, in particolare dell’unico personaggio femminile, peraltro centrale nella vicenda. Gastaldi si ostina a far lavorare nei film che dirige la moglie Mara Maryl, ma purtroppo il risultato è devastante, data la cronica negazione per la recitazione della consorte. Se in “Libido” e relativo seguito “Notturno con grida” il fatto che interpretasse un’oca giuliva poteva esserle d’aiuto, alle prese con un ruolo che dovrebbe essere complesso e sfaccettato, la Maryl sfodera una perenne e sconfortante espressione fissa e moscia, senza la minima sfumatura, che azzoppa inesorabilmente l’intero film. Ed anche il fatto che il suo personaggio sia così antipatico, scostante e gelido poco aiuta per un possibile coinvolgimento. Gastaldi si perde poi in considerazioni politico/sociali di quarta mano (“Noi ci mostriamo per quello che siamo. Senza vergogna.” dice lo svitato Fred alla borghese Jane in un per nulla velato contrasto di classe, ribadito anche da una successiva affermazione rabbiosa della donna che, rivolta all’amante, gli urla “Il mondo non lo cambi andando in giro come un vagabondo!”), riflessioni esistenziali campate per aria (“A me piace vivere così, libero da tutti.” dice Speed, il più sensibile del gruppo, ben consapevole che “Fare del male così è troppo facile.”), psicologismi da asilo nido, soprattutto nelle dinamiche e nelle tensioni all’interno del gruppo di bikers e violenze ripetute e plateali che suscitano più che altro sbadigli (il pestaggio notturno ai danni di Fred e il regolamento di conti finale con le moto, quasi interminabile con una conclusione disperata altamente prevedibile e dunque posticcia) dando la netta sensazione di un film confuso e sbrigativo che gira di continuo a vuoto. L’autore non prende posizione né per gli uni (la coppia borghese è rappresentata in modo tutt’altro che lusinghiero) né per gli altri (“La società è malata e noi siamo un virus.” dice uno della banda mentre il leader Fred precisa “Siamo animali. Ma con dentro qualcosa che ci leva il piacere di esserlo.”), ma non è necessariamente una nota di merito quando il contesto è così sciatto e didascalico da far risultare il presunto cinismo del tutto spuntato ed edulcorato, privando di qualsiasi interesse lo scontro ideologico alla base della storia. Da un lato l’ipocrisia, il perbenismo di facciata ed il comodo conformismo, dall’altro l’insofferenza, la crudeltà e la violenza fine a se stessa, un atteggiamento incivile, disordinato e bestiale con cui si vorrebbe ribaltare il mondo, attaccando, senza ragione, chi la pensa diversamente. Si salvano una sequenza piuttosto riuscita (l’apparizione al cottage dei quattro vagabondi, con insistiti primi piani su piccoli particolari ed un continuo cambio di prospettiva ad incrementare lo spavento e lo smarrimento della coppia di fronte all’improvvisa ed inattesa comparsa di quattro sconosciuti dall’aria tutt’altro che amichevole), la suggestiva location in riva al mare, le facce (ma non l’interpretazione) dei quattro balordi (spiccano in particolare il voyeur Riccardo Salvino e il sadico Gianni Loffredo, nei panni dei due più volgari e repellenti membri della banda, mentre più scontati appaiono i “buoni” Robert Hoffmann e Fabian Cevallos di cui ci si chiede cosa possano condividere con gli altri due animali). Musiche di Stelvio Cipriani, comunque non al meglio, e una brillante battuta finale da ricordare, pronunciata dall’inetto Harry (più volte accusato di essere un vigliacco dalla moglie, ma a conti fatti il personaggio più credibile ed efficace del film nella sua goffaggine ed impotenza) che, ripartendo per la città, dopo quel disperato week end, pronto a riprendere l’ordinaria routine quotidiana, commenta con la moglie “Forse non faccio neanche tardi in ufficio.” Tra i doppiatori i grandi Pino Locchi (Fred) e Ferruccio Amendola (il viscido Jonathan).
Voto: 4
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