Regia di George Ovashvili vedi scheda film
Primavera, estate, autunno. Sul fiume Inguri, che separa la Georgia dall’Abcasia, paesi divisi da un lungo conflitto, si formano e si disfano isole itineranti. In una di queste si installano un vecchio contadino e sua nipote, ma per sopravvivere devono affrontare diversi pericoli. È un cinema che si abbandona alla contemplazione della mutazione dello spazio, quello del georgiano Ovashvili. La ricerca impossibile di una pace e di una stabilità familiare aveva già caratterizzato il precedente lungometraggio del regista, Gagma napiri. Stavolta però non è il viaggio, ma la ricerca di un luogo, la meta desiderata dai due protagonisti. Con dialoghi ridotti al minimo, c’è soprattutto uno script sonoro (il rumore del fuoco, degli spari, dell’acqua, del temporale) che sottolinea persistentemente il conflitto uomo-natura, ma anche la guerra silenziosa, sempre presente, che si manifesta nel saltuario ma inquietante passaggio dei soldati con la barca. Quello di Ovashvili è un cinema sempre attento alla ricerca della giusta inquadratura, che può rischiare di rasentare il compiaciuto formalismo di Andrej Zvyagincev, soprattutto quando mostra, per esempio, il riflesso del contadino sull’acqua. Ma poi questa composizione si sgretola, gli elementi entrano in simbiosi con i personaggi e i silenzi diventano sempre più assordanti e drammatici. Dalla natura si staccano gli sguardi, anzi gli occhi. Con un finale che lascia il segno.
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