Regia di George Ovashvili vedi scheda film
Una macchia. Una piccola chiazza di fragile fango, così inconsistente che basta un po’ di pioggia a spazzarla via. È la tenue dimensione dei sogni destinati a durare meno di una stagione, come le età mutevoli dell’anima umana. C’è quella che vorrebbe crescere, ma non può, come una ragazza che si affaccia alla vita sotto la stretta sorveglianza di un nonno troppo avvezzo ai pericoli del mondo. E c’è quella, già navigata, che cerca il modo migliore per chiudere il cerchio, per ritornare alle origini, ma solo dopo aver seminato e raccolto ciò che serve a far girare il ruota del tempo. In quell’angolo della Georgia che si chiama Abcasia, e che vorrebbe essere una nazione a sé, il fiume crea, ogni anno, delle minuscole isole: pozzanghere di terra in mezzo alla corrente, minute ma fertilissime, dove si può coltivare il mais, ed assicurarsi il necessario a superare l’inverno. Un vecchio contadino e sua nipote costruiscono lì la loro casa, fatta di assi di legno, con due letti spartani, e giusto un chiodo per appendere una bambola di pezza. Una baracca che dovrà servire da rifugio durante la lunga estate, mentre resteranno lì, a lavorare nel campo, ad accudire le spighe, cibandosi del pesce catturato con una cesta. Questa storia è una sussurrata elegia degli stenti, della quotidianità ridotta a meno dell’essenziale, nelle condizioni serenamente estreme di chi non possiede nulla, nemmeno un bagno per lavarsi, eppure sorride, e tira avanti come se niente fosse. In quello microcosmo surreale, l’emarginazione si fa poesia campestre, metafora della semplicità che non chiede altro che poter continuare a restare in pace, nell’assenza di desideri, cullandosi nella tranquillità dei sensi. Da lontano giungono gli echi della guerra, ma bisogna impedire che l’avidità, che urla attraverso quegli spari, arrivi a lambire quel provvisorio paradiso. I soldati notano la fanciulla. La osservano e poi la chiamano. Lei è indecisa se rispondere. L’uomo glielo impedisce. Nulla deve turbare quell’incanto in cui la miseria è il veicolo dell’imperturbabilità, dove l’unica esigenza vitale è rimanere lì, ancorati a quella banale missione, concentrati su se stessi, privi di orizzonte, celati agli sguardi indiscreti. Quella selvatica forma di riservatezza è dolce come il suono delle lingue sconosciute, parlate dai pochi superstiti di antichissime culture: una voce che sembra ai più priva di significato, estranea alla cadenza familiare delle strutture verbali, e quindi fa pensare alla purezza espressiva della musica, che si può comprendere solo dimenticandosi di pensare, di porsi domande, di inseguire un filo logico. In questo film la parola si concede con una parsimonia che è la fusione di sobria saggezza e rozza primitività: si parla poco perché non si ha granché da dire, e questo è, allo stesso tempo, un sintomo di povertà interiore e di nobile contegno. Quello che fa rumore è invece il vuoto vero, volgare, non mitigato dal pudore, quello di chi indossa la divisa e spara, grida, canta, beve vino. È la cassa armonica di un’ottusità che si pasce delle proprie voglie, e non rispetta la bellezza: quella della natura, della donna, dell’amore in generale. È la cecità che cerca il nemico ferito per ucciderlo, oppure l’amico ferito per riportarlo con sé nella battaglia. La luce, invece, è silenzio, è gioia di vedere accompagnata dall’istinto di nascondersi. È il colore dorato del granoturco cotto dal sole, biondo e scapigliato, giovane eppure già maturo, pronto a dare i suoi frutti, senza porre condizioni, senza battere ciglio. È la vittoria remissiva della pianta che, diventata alta, si fa tagliare dalla falce o abbattere dal temporale, perché è giusto così. Perché sarà sempre così, e poi non c’è un perché.
Corn Island propone il minimalismo come la limpida trasparenza delle creature che scorrono, che sono solo di passaggio, e il cui destino si compie negli esseri che verranno dopo: i figli che ne erediteranno i cespiti, senza mai sapere a chi appartengano, né il motivo per cui siano stati lasciati lì. Forse per loro, forse per caso.
Questo film ha rappresentato la Georgia agli Academy Awards 2015.
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