Regia di Iris Elezi, Thomas Logoreci vedi scheda film
«Durante il comunismo tutte le persone che vedi sono state prelevate dalle loro case e messe qui. Come internati». Il café di Beni si chiama Bota. Significa mondo, ma è un mondo in esilio, un’oasi di ristoro dentro al nulla di regime, un’Albania d’oblio per gli oppositori di Enver Hoxha. Intorno c’è solo la terra arida, un gruppo di persone troppo esiguo per non esser legato da bugie e ipocrisie, da racconti che han negato la storia, da storie lerce su cui fondare il miraggio di un futuro. Beni è un proprietario in cerca d’arricchimento, Nori l’amante incinta e sfollata, Juli una cugina orfana, Noje la nonna di questa, in preda ai ricordi della figlia scomparsa. Un’autostrada in fieri, a 10 chilometri dal bastardo posto sperduto, è un’idea di speranza. L’esistenza, come il film, scorre lenta, e in essa, in esso, sembra non esserci nemmeno spazio per il dramma, tutto è mesta commedia di raggiri e arte d’arrangiarsi, soap opera ridotta a una manciata d’attori, ai loro rassegnati sentimenti, ai loro inutili slanci. «Non succede niente, qui». I quadri composti e l’andamento compito, da professionale e pauperistico film d’autore, inquadrano Bota Café in una commedia eastern afasica, stremata dal sole e dalla miseria, con squarci di folklore e musica d’orgoglio popolare. Poi le cose precipitano. Succedono. Il passato ritorna. D’un tratto. Ma anche la tragedia è un falso movimento. E il film riesce, perché sa restituire il sentimento, l’umore, di questa malinconica stasi.
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