Regia di Ava DuVernay vedi scheda film
La marcia da Selma a Montgomery di Martin Luther King e del suo movimento pacifista, nel racconto commovente ed accorato di Ava DuVernay, candidato a due statuette alla prossima notte degli Oscar. Un film sorprendente per coerenza e compattezza. Non una biografia, ma un approfondimento su un evento storico breve ma fondante per la storia degli Stati Uniti e per quella del mondo occidentale tutto. I metodi e il pensiero di King fanno da corollario alle vicende, tanto che della vita del leader predicatore viene raccontato lo stretto necessario. È come se gli autori volessero confermare che gli uomini passano ma le storie, i gesti, le idee rimangono per sempre.
“Selma” è un film diverso. Non si avvale di nessun tecnicismo (a parte un montaggio fuori sincro che amplifica la risonanza di azioni viscerali e sofferte) , nessun moralismo, né giudizio di sorta. DuVernay sa che basta raccontare la fredda cronaca per affabulare e commuovere. Il racconto perciò prova ad essere asciutto, mostrando (a tratti quasi con un taglio documentaristico) la realtà vissuta negli anni ’60 in America, dove essere nati con un certo colore della pelle significava spesso essere considerato alla stregua di un animale (“scimmia!”, urla ad un certo punto il buzzurro sceriffo di Selma). La violenza è velata, ripresa in lontananza, spesso addirittura solo intuita. Ma è il magone verso una situazione inammissibile, ostentatamente malvagia, il vero fattore di violenza; il senso di impotenza è a tratti insostenibile. Impossibile non immedesimarsi o quantomeno compenetrarsi. Selma è un pugno allo stomaco. Ancora, dopo 50 anni e con un presidente USA afroamericano in carica. Segno che certe ferite sulla credibilità del genere umano non finiscono mai di sanguinare.
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