Regia di Ava DuVernay vedi scheda film
«Selma racconta il movimento per i diritti civili, che ha funzionato perfettamente e ora è tutto okay»: è la battuta con cui Amy Poehler e Tina Fey presentano il film durante la cerimonia dei Golden Globe 2015 e illumina in un ghigno, ironico suo malgrado, le ambiguità dell’opera di DuVernay. Che difficilmente potrebbe essere più politicamente corretta (e dunque, forse, più innocua) di com’è, precisa nella ricostruzione storica, calibrata tra scintille d’indignazione e precognizioni di rassicurante speranza, attenta a tratteggiare villain senza chiaroscuri (il governatore Wallace di Tim Roth, il capo della polizia, ovviamente il burattinaio J. Edgar Hoover) e a pennellare d’umanità gli eroi consegnati alla Storia (Martin Luther King e Lyndon B. Johnson). Ma Ava DuVernay (che viene dall’indie), se non può/vuole inseguire la sovversione scioccante di 12 anni schiavo, evita con successo le insopportabili semplificazioni di un The Butler o la frivola stucchevolezza di un The Help, concentrandosi, come Lincoln, su un momento cruciale preciso e circoscritto, sovrapponendo l’icona (il dottor King interpretato con mimesi personale da David Oyelowo) all’immagine dell’uomo comune (e dunque allo spettatore). Selma è cinema classico, tradizionale, solido: retorico quando serve, commovente quanto basta. Eppure necessario: l’autorappresentazione di un popolo, da sempre relegato ai margini dello schermo, può passare anche per il canone.
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