Regia di Roan Johnson vedi scheda film
Poniamo il caso di dover fare una tesi di laurea, senza scomodare il manualetto di Umberto Eco. Appurato il cosa, che è il film di cui voglio parlare, pensiamo a chi chiederla? Un docente di cinema, certo, poi ognuno veda a chi. Arrivo al dunque: il correlatore potrebbe essere un docente di una qualche sociologia. Fino a qui tutto bene pone anzitutto un problema assai interessante: la commedia generazionale italiana degli ultimi, diciamo, trent’anni è un genere che s’intreccia inevitabilmente sì col bilancio di una collettività emblematica ma anche con la dilatazione della tarda adolescenza.
Prendiamo due autori nostrani di commedie generazionali: Salvatores per i trentenni della fine degli anni ottanta e Muccino per quelli dei primi anni zero. Tralasciamo la riflessione tecnica o artistica: i trentenni di Salvatores devono fare i conti con una rivoluzione mancata, qualcuno ha scelto la carriera e qualcun altro la frustrazione, eppure tutti trovano nella fuga un collante (uno per tutti: Marrakech Express); i trentenni di Muccino rinunciano al pubblico e riversano ogni delusione sul privato isterico, ambiscono ad un amore assoluto e non rinunciano al cazzeggio (uno per tutti: L’ultimo bacio). Entrambi hanno saputo lasciare una traccia nel ritratto della propria generazione, l’uno con affettuosa adesione e l’altro con indulgente compiacenza.
Smetto quando voglio ha segnato una tappa importantissima nell’istituto della commedia contemporanea perché ha rinnovato un archetipo (diciamo I soliti ignoti) coi codici del postmoderno (la serializzazione di matrice americana), raccontando gustosamente le frustrazioni di una generazione il cui collante è l’assenza di un orizzonte (poi la possiamo risolvere con la speranza ma ora non ci interessa). Smetto quando voglio, però, non lo inserirei nel filone “commedia generazionale”, perché la sua trasversalità è talmente considerevole da non poter essere imbrigliata nelle maglie di questa famiglia di film (è piuttosto una commedia sulla disgraziata generazione degli attuali trenta-quarantenni).
Il vero erede della tradizione di cui Salvatores è maestro, è questo Fino a qui tutto bene, che la pubblicista cinematografara ha facilmente associato a Sqv (la stessa locandina ne riprende i colori acidi e le didascalie). In questo piccolo film praticamente autoprodotto, Roan Johnson mette in atto una complessa operazione di contaminazione tra tradizione, citazionismo e rinnovamento: il gruppo di tardo adolescenti (diciamo tra i venticinque e i trent’anni) alle porte di una presunta maturità (l’abbandono dalla casa in cui hanno condiviso gli anni dell’università) e alle prese con gli ultimi giorni di baldorie e nostalgie.
I riferimenti sono stati fatti avanti in più sedi: il titolo omaggia L’odio, la casa è una proiezione nostrana de L’appartamento spagnolo, il disegno dei personaggi s’ispira ai tanti Giovani, carini e disoccupati et similia, la morte de Il grande freddo, la frammentazione è associabile a quelle delle web serie alla The Pills… Certo, è un esercizio di memoria abbastanza fine a se stesso. Ma è probabilmente stimolante proprio per capire i pregi e i limiti di un film così irreparabilmente simpatico. Non funziona spesso, e un po’ mi dispiace, l’armonia degli episodi messi in scena con un certo cedimento alla discontinuità narrativa. Episodi comunque divertentissimi.
Funzionano: l’identificazione coi ragazzi, caratteri tratteggiati con premurosa cognizione di causa nel loro coacervo di ansia e timore, allegria e malinconia; l’idealizzazione del gruppetto e del luogo sacro, una casa che ha visto troppe cose (è anche una cerimonia degli addii in cui si scoprono gli altarini, pur con garbo e senza drammi); il trauma di una generazione senza fiducia nel futuro, in cui, per dire, il suicidio resta un tabù e tuttavia non ci si può e non ci si deve arrendere al disfattismo, alla paura, al dolore.
Giusto per la cronaca: lo stanchissimo Un fantastico via vai del bollito Pieraccioni giocava sugli stessi temi e perfino nella stessa regione, con la deplorevole particolarità di uno sguardo paternalistico e in definitiva fasullo su quella generazione. Ecco perché Fino a qui tutto bene è tra le più significative commedie del nuovo cinema italiano degli ultimi anni, se non altro per forza creativa, libertà d’esecuzione e rigenerazione nel e del genere, un film a cui si perdonano sicuramente le ingenuità e di cui si accoglie senza remora la possibilità, rarissima guardandosi attorno, di un film che vive e lotta assieme a noi, sorridendo e giocando coi turbamenti di una generazione.
(È assai improbabile che debba fare una tesi sul film, però la questione della commedia generazionale come luogo del bilancio privato e quindi pubblico e del rinnovamento del filone mi interessa assai).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta