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Doppio Suicidio ad Amijima

Regia di Masahiro Shinoda vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Doppio Suicidio ad Amijima

di yume
10 stelle

 

Una cascata di note martellanti sullo schermo nero, qualche secondo e appare in primo piano una maschera.

E’ la testa di un burattino bunraku, un viso maschile, che il kurogo sta assemblando.

Poco più in là il burattino donna é pronto, le braccia di un kurogo lo animano.

 

Attrezzi di scena in giro, rumori di fondo, é il backstage di Shinjû: Ten no Amijima (Doppio suicidio ad Amijima).

 

Squilla un telefono, Shinoda discute con la sceneggiatrice sul suicidio finale dei due amanti.

Deve svolgersi in un cimitero, ce n’é uno nei pressi di Kyoto pieno di pietre tombali, non é necessario seguire lo script a questo punto, i dialoghi possono essere improvvisati, piuttosto dev’essere catturata l’immagine essenziale.

“… la scena cattura così lo spazio… una sorta di feticismo dello spazio… un forte contrasto fra  questo e i corpi della coppia” sta dicendo il regista, quella scena non c’é nel testo originale di Chikamatsu, ma Shinoda intende riprodurne lo spirito, non la lettera.

"Shinju ten no Amijima é stato realizzato in modo tale da riprodurre il pensiero e lo stile di Chikamatsu. I "kurogo" rappresentano l'occhio della cinecamera; rappresentano colui che agisce per soddisfare il desiderio del pubblico di scoprire il segreto dei due protagonisti; rappresentano infine lo stesso Chikamatsu che é l'autore del dramma".

 

Burattini manovrati dai kurogo incappucciati cominciano a muoversi, una voce gutturale scandisce lenta i titoli.

 Il nero é protagonista, attenuato da una ricca gamma di grigi che virano al bianco totale, accecante, su cui scorrono gli ideogrammi di testa.

 

 

 

Il passaggio al mondo reale avviene sul ponte di legno arcuato che  Jihei (Nakamura Kichiemon), il protagonista, sta attraversando. Dall’altro capo avanza una fila di personaggi vestiti di bianco che battono su strumenti a percussione.

 

 

 

La composizione delle masse é magistrale, pieni e vuoti, bianco e nero, silenzio e rumore sono distribuiti in misurato equilibrio, l’aria é carica di attesa, di mistero.

Jihei guarda giù dal ponte, due cadaveri sono distesi fra figure nere incappucciate.

Gelo, orrore senza voce, é il presagio.

 

 

locandina

Doppio Suicidio ad Amijima (1969): locandina

 

La storia può iniziare.

 

Ora il suono é di sbarre colpite da un oggetto metallico, Jihei é incorniciato da scenografie carcerarie, sbarre ovunque, sul fondo calligrafie monocrome fortemente contrastate di Shinoda Toko, in primo piano pesanti linee nere.

 

 

Amore e morte danno inizio  alla loro danza tragica.

 

Sonezaki shinju tsuketari Kannon meguri é il dramma di Chikamatsu Monzaemon (1653-1724)  che racconta di due amanti suicidi, Ohatsu e Tokubei.

 

 

Lui é un mercante di carta di Osaka, lei una cortigiana che l’uomo ama follemente ma non può riscattare perché ha pochi mezzi e moglie con due figli piccoli a carico. Gli amanti, oppressi dal forte contrasto che si scatena in famiglia, schiacciati dal peso delle regole sociali, incapaci di riscattarsi agli occhi di Osan, moglie fedele e capace di sacrificio e compassione degni di anime grandi,  decidono di morire insieme perché il loro amore viva inalterato oltre la morte.

 

Ispirato a fatti di cronaca vera, il genere era molto praticato in Giappone nel periodo Tokugawa (1603 - 1868).

 

 

 

Nel 1969 Shinoda Masahiro ne fa un film, Shinjû: Ten No Amijima (Doppio suicidio ad Amijima).

Conclusa la collaborazione con la Shochiku, storica casa di produzione per cui molto ha prodotto negli anni precedenti (Koi no katamichi kippu, Un biglietto di sola andata per l'amore, 1960, Kawaita mizuumi, Il lago prosciugato, 1960, Namida o shishi no tategami ni, Le lacrime sulla criniera del leone, 1962, Kawaita hana, Fiore secco, 1963, Ansatsu, Assassinio, 1964, Ibun Sarutobi Sasuke, Sarutobi Sasuke ascolta un'altra storia,1965 tra i titoli più noti) Shinoda sceglie la strada dura e coraggiosa dell’indipendenza e in piena libertà, benchè con mezzi molto scarsi (10 milioni di yen), realizza il suo capolavoro, il sogno della sua vita, coltivato fin da quando, all’Università Waseda di Tokyo, studiava letteratura ed estetica con specializzazione in teatro classico.

 

La tesi di laurea su Chikamatsu gli ha segnato la strada.

Shinjû:Ten No Amijima esprime una concezione del cinema di straordinaria forza espressiva e qualità estetica, fenomeno di ibridazione fra cinema e teatro che supera la semplice istanza di sperimentazione legata alla Nuberu Bagu, la Nouvelle Vague giapponese di cui il regista é rappresentante di spicco.

Shinoda lascia sempre ampi margini di accoglienza alla tradizione più fertile del passato, e il teatro classico é quanto di più idoneo ci sia per produrre quella forma di straniamento di tipo brechtiano che fa da perno alla sua ricerca artistica.

 

Spazi di integrazione con il linguaggio del cinema il teatro classico giapponese ne ha sempre forniti, anche fuori dei confini del Paese. 

Fra le tante ricordiamo la sequenza di teatro NO in Le pont des Arts di Eugène Green; in sale di kabuki e teatro NO Ozu gira la scena iniziale di Capriccio passeggero e una delle riprese più intense di Tarda primavera; il doppio suicidio d’amore, lo ‘shinju’, momento topico della tradizione teatrale, é uno dei momenti più spettacolari in Dolls di Kitano.

 

Teatro kabuki (arte del canto e danza) e bunraku (teatro di marionette) forniscono ora a Shinoda i mezzi per una messa in scena antinaturalistica che mette in evidenza, in uno svelamento esibito, la macchina teatral/cinematografica in movimento.

 

Anche qui, come a teatro, intervengono nello sviluppo dell’azione i kurogo, inquietanti figure incappucciate in abito nero che si muovono intorno agli attori come se questi fossero marionette, fermano l’azione, indicano la direzione degli eventi, portano oggetti in scena o girano fondali a cambiare ambientazione.

 

Figure chiave del teatro giapponese i kurogo, in genere in numero di tre, muovono contemporaneamente le varie parti della marionetta entrando con le braccia nel suo corpo che assume così una vitalità in nulla paragonabile a quella delle comuni marionette. 

Presenze molto visibili, ma completamente velate di nero a significare invisibilità, si muovono nell’incavo del pavimento posto dietro le marionette pesantemente truccate e addobbate, ed enfatizzando marcatamente gesti e voce producono un costante svelamento di tutto quanto concorra nello spettacolo a creare finzione.

 

 

 

La distanza straniante fra rappresentazione e spettatore consente così quella selezione tendenziosa di eventi che attribuisce al reale un senso che va oltre la sua riproduzione meccanica e il montaggio connotativo applica al cinema quello che Roland Barthes, nel saggio omonimo del 2002, chiama “le tre scritture” :

Il Bunraku pratica dunque tre scritture separate, che offre da leggere simultaneamente, in tre luoghi dello spettacolo: la marionetta; colui che la manipola e colui che la parla: il gesto effettuato, il gesto effettivo, il gesto vocale. […] Tutto questo raggiunge, naturalmente, l'effetto di straniamento raccomandato da Brecht. Questa distanza […] il Bunraku permette di capire come possa funzionare: grazie alla discontinuità dei codici, grazie a questa cesura imposta ai differenti tratti della rappresentazione”.

 

Il carattere finzionale dell’opera apertamente esplicitato e la sua accettazione mediante il classico  patto con il pubblico sono i pilastri su cui si regge l’opera.

Come di fronte ad un grande trompe l'oeil, chi guarda viene contemporaneamente appagato dal realismo dell'immagine e frustrato dalla sua illusorietà, il compito strettamente narrativo dell’opera é relegato ai margini dall’urgenza di modellare psicologicamente lo spettatore e il coinvolgimento emotivo a cui questi sceglie di esporsi é assicurato dal processo di straniamento in atto.

Dalla proclamata ambiguità del reale si arriva così ad una conoscenza più profonda della sua articolazione interna, intesa non più come meccanico succedersi di quadri ed eventi ma come loro collisione, realizzata con l’utilizzo di codici stravaganti, alterati e alterabili di comunicazione.

 

Ricorrere ad una modalità classica di rappresentazione, il teatro, utilizzando i codici del cinema é operazione che Shinoda affronta con l’intento di opporsi all’apparente frammentazione del reale, spostando su altri livelli la sua ricostruzione di senso. 

Coadiuvato dalla colonna sonora di Takemitsu, che attinge a piene mani nel materiale tematico tradizionale usando strumenti come lo shamisen, canonico nell’accompagnamento dello spettacolo teatrale, opta per una recitazione evidentemente impostata, innaturale, un uso del bianco e nero fortemente contrastato, mentre le scelte scenografiche di Awazu Kiyoshi unite alle calligrafie di Shinoda Toko si muovono in perfetto accordo con lo sviluppo della storia e lo skyline delle situazioni emotive in corso.

 

 

 

Ma la fedeltà del film al testo del grande drammaturgo teatrale che gli fornisce la storia e lo stile vistosamente sperimentale della messa in scena non basterebbero a far parlare di capolavoro se non intervenisse un terzo fattore, ed è la superba maestria di Shinoda nel plasmare figure di emarginati, outsider sconfitti in partenza, esseri costantemente fluttuanti nella loro fragilità fra il bene e il male, incolpevoli e colpevoli allo stesso tempo.

Il tratteggio della figura femminile é sottile e penetrante, affidare i due ruoli (Koharu, la cortigiana e Osan, la moglie devota fino al sacrificio totale di sé) alla stessa attrice (Iwashita Shima) é scelta stilistica coerente con un impianto che fa dell’ambiguità immanente al processo di significazione della realtà il suo punto di forza.

Maschere vive, esseri umani imprigionati in forme fisse, stereotipi: questa é la platea umana che Shinoda fa muovere sulla scena, marionette mosse da forze esterne senza le quali sono poveri, grotteschi  pezzi di legno e cartapesta appoggiati qua e là nel disordine di un set in allestimento.

Le grandi antinomie dell’umanità, i conflitti ideologici continuamete riproposti, l’amore che tutto travolge e il peso schiacciante di responsabilità e doveri che tolgono ossigeno, povertà e ricchezza e loro peso sul destino dell’uomo, pietà e perdono fino al sacrificio di sé e ottuso ossequio a convenzioni sociali alte come sbarre di un carcere a vita: Shinoda mette in scena l’intera gamma delle passioni umane per poi smontarne i pezzi, come marionette bunraku dopo lo spettacolo.

E lo fa usando il mezzo più antico e nuovo insieme inventato dall’uomo per guardarsi vivere.

Lo specchio magico del teatro/cinema.

 

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