Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Ho visto questo film per la prima volta il 15 gennaio 1991, la vigilia dell’attacco americano all’Iraq. Erano giorni di paura e incertezza per il futuro, ma probabilmente si trattava del clima più adatto per apprezzare questa storia incentrata sull’atteggiamento degli occidentali nei confronti dei barbari e sul come i barbari a volte possano prevalere. Sui titoli di testa scorrono immagini degli USA nell’immediato dopoguerra: euforia, voglia di vivere, ma anche vuoto interiore; un mondo da cui si distacca una nave che prende il largo verso est. Poi si passa dal b/n al colore, spuntano tre teste da dietro un muro (mentre risuona per la prima volta l’ipnotico motivo musicale che attraversa tutto il film): sono appena sbarcati in Marocco Port e Kit Moresby, marito e moglie, e il loro amico George Tunner (che li ha seguiti più che altro per una bravata). Il turismo, in questa zona del mondo e in questo periodo, semplicemente non esiste; però è anche vero, ci viene detto, che Port e Kit non sono turisti ma viaggiatori (cioè non solo non pensano al ritorno, ma possono anche decidere di non tornare: incoscienza severamente giudicata dal narratore che li osserva, lo stesso scrittore Paul Bowles, secondo cui i due “non avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine”). Così la comitiva prosegue verso l’interno, adattandosi a situazioni logistiche (alberghi, ristoranti, mezzi di trasporto) sempre più precarie e miserevoli. Port e Kit sono chiusi in una prigione di orgoglio, vorrebbero recuperare il loro rapporto ma non si parlano mai apertamente e anzi si tradiscono (lui va da una prostituta locale, lei si lascia sedurre da George); ormai troppo tardi, quando Port sta per morire di febbre tifoidea in un fortino della Legione straniera, si parlano con il cuore in mano e solo allora intuiamo quell’amore reciproco che fino ad allora il film non aveva mai mostrato. L’ultima parte è un po’ ostica, lo ammetto, ma è la conseguenza di ciò che precede: Kit ha perso il marito, ha lasciato i bagagli per strada e ora, aggregatasi alla carovana dei beduini, si libera del suo abbigliamento un pezzo per volta (il casco coloniale diventa un giocattolo per i bambini) e rinuncia anche all’uso della parola, diventando oggetto sessuale del capo. E quando alla fine, dopo peripezie inenarrabili (che nel libro vengono raccontate, ma che saggiamente il film lascia solo intravedere), viene recuperata al mondo civile, trova ad accoglierla il narratore che ricorda quanto minuscola cosa sia l’esistenza: “Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita? forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? forse venti. Eppure tutto sembra senza limite”. Adoravo Debra Winger anche prima, ma non mi aspettavo da lei questo salto di qualità; voglio ricordare anche Campbell Scott (sottostimato, mi è sempre piaciuto negli altri film in cui l’ho visto) e Timothy Spall (in Segreti e bugie sembra un gigante, qui è un ometto viscido: questa è recitazione). Da cancellare solo il titolo italiano, che fa pensare a una scenetta idilliaca e che si sovrappone all’originale The sheltering sky (“Il cielo che ripara”). Se non si tiene conto di quest’ultimo, rischia di passare inosservato il dialogo fra Port e Kit nella scena in cui cercano di fare l’amore sull’altopiano, dopo la gita in bicicletta: “Sai, il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida, lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro” “Da quello che c’è dietro?” “Sì” “Ma cosa c’è dietro?” “Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta”. Un nichilismo che può anche urtare (a suo tempo il giudizio della commissione cinematografica della CEI fu “inaccettabile/negativo”), ma di cui ammiro la coerenza estrema.
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