Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Seconda puntata di Bertolucci fuori casa, per uno dei suoi film più enigmatici. Il tè nel deserto, non è un film in cui non ci si deve porre la domanda “perché?” (perché i personaggi sono partiti, perché si comportano in un certo modo, perché parlano da intellettualoidi, ecc.), e nemmeno la domanda “chi?” (chi sono, per esempio, il che porterebbe ad altre domande simili che approfondirebbero questa), ma dove regna imperioso un solo fattore: il “dove”. I luoghi, nel film, sono quasi tutto, se uno li afferra, può intuire tutta l'operazione, il problema è capirli, e per questo, servono sia la conoscenza geografica, che quella storica: la prima, porta a capire l'aridità del continente Africa, ed il suo gigantesco fascino, causato dagli spazi sterminati (ricordiamoci che gran parte dell'azione si svolge nel Sahara), da un gioco di luci provocato dai movimenti del Sole e della Luna, che creano linee di demarcazione praticamente invisibili tra il cielo ed il deserto, come fa notare Malkovich nel discorso che fa a Kit, secondo cui, il primo, come se fotte fatto di sabbia, diventa più solido e pastoso, ad una certa ora, come uno scudo che protegge dall'oscurità e dall'oblio di ciò che non si conosce (cosa che riallaccia la vicenda al titolo originale “Il cielo riparatore”, che giustifica, in qualche modo, l'agonia terrena dei protagonisti, che guardano con sofferenza il cielo, la loro unica illusione di felicità). Il secondo fattore , invece, serve come “riparo”: l'arretratezza tecnica dell'Africa, porta ad un ispessimento della cultura del luogo, ed i “selvaggi”, con la loro decisione, riescono a sovrastare l'impotenza spirituale americana, cosa che è da ricollegare anche alla tensione politica dell'epoca tra Stati Uniti e Medio Oriente, con i primi che stava ancora crogiolandosi nella sua epoca di felicità, ed il secondo, ancora chiuso, eterno protettore dei suoi beni terreni (il petrolio). Il regista, sposta i borghesi annoiati dei suoi maestri, in questo contesto esotico, tentando di riproporre la formula classica dell'esposizione della loro decadenza, con qualche piccolo cambiamento: invece di essere rinchiusi nel loro mondo neo capitalista ormai invecchiato, sono resi succubi di loro stessi, privi di ispirazione e di amore, e spinti alla fuga in luoghi remoti dalla loro infelicità. Il connubio, come era anche prevedibile, funziona molto più che in contesti rinchiusi (Ultimo tango a Parigi) e soffocanti, confermando l'ipotesi che Bertolucci sia un regista più hollywoodiano (naturalizzato dalla sinistra italiana) che altro, troppo americano per gli italiani, troppo italiano per molti americani, comunque, sempre piuttosto interessante (scusando qualche recente caso...). Oltre a questo, è aiutato da un cast d'eccezione con Malkovich sopra a tutti, da una colonna sonora magnifica e da una fotografia perfetta, nonché dal suo particolare piglio da kolossal. Il tè nel deserto, non è un capolavoro, è un po' ostico, ed anche (a tratti) criptico, ma è un film atipico ed onesto, un'opera che è formata di grandi parole, ma anche, e soprattutto, di grandi silenzi.
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