Regia di Gregory Wilson vedi scheda film
Curiosamente, nel corso del 2007 escono negli USA due film ispirati alla stessa tragica vicenda: le atroci sevizie cui venne sottoposta, a Indianapolis nel 1965, la sedicenne Sylvia Likens per opera di Gertrude Baniszewski, dei suoi figli e di altri adolescenti, conclusesi con la morte della ragazza.
Mentre però An American Crime fa riferimento agli eventi reali, La ragazza della porta accanto è tratto dall'omonimo romanzo di Jack Ketchum, che si basa sì sul dramma di Sylvia e della sorella Jenny, ma modifca molti dettagli di non poco conto, ricavandone un thriller psicologico che scava nell'abisso della malvagità umana e viene a costituire -come ha sostenuto lo stesso Stephen King- una sorta di "lato oscuro" di Stand by me. Principali differenze: Sylvia e Jenny Likens sono ribattezzate Meg e Susan Loughlin, Gertrude Baniszewski diventa Ruth Chandler; la vicenda è ambientata in una cittadina del New Jersey nel 1958; le ragazze, rimaste orfane, sono andate a vivere con la zia, mentre in realtà i Likens (giostrai ambulanti) avevano altri figli e avevano affidato Sylvia e Jenny alla Baniszewski per permettere loro di frequentare la scuola, impegnandosi a pagare alla donna 20 dollari a settimana per il loro mantenimento (tipo la storia di Cosette e della malvagia Thénardier); Jenny era disabile a causa della poliomielite, non dell'incidente in cui avevano perso la vita i genitori, e non era una bambina, aveva solo un anno meno di Sylvia.
Quindi, se cercate una ricostruzione abbastanza fedele, non è questo il film per voi. Lo sconsiglio ugualmente alle persone sensibili: io non sono particolarmente impressionabile, ma durante la visione mi sentivo molto a disagio e mi si è bloccata la digestione (una cosa analoga mi è capitata solo altre due volte, per Dogville e per il tristissimo anime Una tomba per le lucciole). Non che le immagini mostrate siano particolarmente truculente: anzi, personalmente le ho trovate anche troppo edulcorate rispetto alla crudezza di ciò che dovevano narrare (in ossequio alla pruderie che da tempo si è imposta nel cinema statunitense, e che li spinge, per esempio, a eliminare maniacalmente dalle inquadrature qualsivoglia pelo pubico). Ma il crescendo di maltrattamenti e violenze fisiche e psicologiche che la luciferina Ruth, con la complicità dei figli e dei ragazzi del vicinato, infligge alla sventurata Meg trasmette un senso di oppressione e di claustrofobia non facile da sopportare.
Tanta emozione rende difficile individuare a mente fredda le pecche del film, che pure non mancano: da una sceneggiatura che a volte zoppica a temi che vengono buttati lì e non adeguatamente approfonditi (la condizione femminile, l'accenno ad abusi sessuali da parte di Ruth sulla piccola Susan). Il finale, sforzandosi di essere consolatorio e di recuperare l'atmosfera di amore adolescenziale dell'inizio, risulta un po' stonato.
Giudizio complessivo: ampiamente sufficiente.
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