Regia di Michele Placido vedi scheda film
La scelta. Di una coppia di "attori" francamente improponibile. Una scommessa (persa)? Arroganza? Mera strategia di marketing? La sentenza ai posteri, ammesso che a chicchessia importi qualcosa. Imperdonabile.
Ambra Angiolini, (ma)donna addolorata, s'aggira (proprio come la mdp: è coerenza, yeah) con fare di chi non sa per niente cosa fare, stampando sul nero schermo una scura faccia imperturbabile immobile imbarazzata e nello smorto marmo scolpita (da mani evidentemente goffe: ma quanti mesti primi piani ...), del tutto incapace di conferire il benché minimo spessore, o sussulto. Di aderire seppur vagamente allo sviluppo psicologico del personaggio, per quanto possibile ...
Di Raoul Bova si ricordano i baffi, ecco.
D'altro canto, va detto, anche interpreti più raffinati tutt'al più avrebbero reso la materia un pochino più digeribile, affrontabile.
Senza tanti giri di parole, La scelta (di potersi fregiare furbescamente di "libere" ispirazioni pirandelliane?) è visione assai molesta, un'esperienza sofferta e lunga malgrado la breve durata (meno di un'ora e mezza).
Film che si trascina, letteralmente (le riprese riempitive della città dall'alto, le pale eoliche, il contorno inutile di cast), lungo i luttuosi sentieri del dramma sentimentale - partendo da uno spunto magari non originalissimo ma certo interessante, almeno potenzialmente - senza il necessario distacco, con un pathos di maniera - più mostrato che suggestivo - ed in assenza grave di sensibilità (per la storia, per i personaggi, per i contenuti, per il linguaggio filmico ma non solo). Cede anzi all'enfasi, in tutte le sue forme ed in ogni nervatura del racconto.
Il gioco di coppia, gli inseguimenti (fisici e nell'intimo), le incomprensioni, le scelte e le (op)posizioni, i comprimari e i luoghi della tragedia/anima: elementi narrativi e di espressione che abbisognano, per rivelarsi (rendersi "autentici"), di un continuo, costante, coercitivo (sovrac)carico "emozionale", da opera impegnata; impregnata, com'è, di umori e sensazioni tumide che indirizzano univocamente la visione (verso lacrimose rive e l'accoglimento collettivo).
Come a riempire (a suon di colpi, perlopiù "ad effetto") il corpo - involucro vuoto - del film, tumefatto e sfatto: il rumore che produce è greve, ridondante, stordente. E la presunta "liricità" del film, tanto inseguita, viene scagliata con grossolana forza: nel quadretto da teatr(in)o colto, allestito per inscenare un piccolo significativo dramma dell'esistenza, a dominare sono l'incapacità nella costruzione/elaborazione del testo e l'artefatto. Così l'effetto è l'opposto dalle intenzioni: sfiancano (da subito) le "nobili" musiche - onnipresenti e tediose -, pare una parodia malriuscita quel coro di bambini ritornante come i peggiori incubi, si rendono ridicoli oltremodo certi passaggi (i monologhi interiori della Angiolini, il biglietto di Bova con un verso di Jovanotti: l'alto e il basso, difficile stabilire cosa sia peggio), si capisce il putrefatto senso ultimo delle cose quando, i protagonisti, nell'ordine e nella maniera più meccanica che si possa immaginare, parlano, sussurrano, bisbigliano, gridano isterici, si guardano e non si cercano, si riuniscono ...
Quello che si può riassumere, in sintesi, nella scena in cui la donna incita le due nipoti (sì, c'è pure una sorella, inutile ed accessoria come chiunque altro), per puro sollazzo, ad urlare: fintissima (lei, le bambine, la direzione) e irritante.
Che poi della evoluzione del personaggio interpretato da Ambra Angiolini - gestita in modo approssimativo -, così come degli altri spunti o della storia (brutalmente: assurdo traslarla ai giorni nostri facendo finta di niente), in fin dei conti non interessi granché, è solo il risultato dell'ora e mezza scarsa di visione scarsa e scocciante.
Michele Placido, che ritaglia per sé il ruolo del maresciallo dei carabinieri che (non) raccoglie la denuncia della donna, sbaglia tutto: copione, messa in scena, attori (compreso lo spreco d'una Valeria Solarino incomprensibilmente in disparte), senso dell'opera, destinatari e "morale". La scelta è un film vecchio (dentro, fuori, in superficie, e tutt'attorno), sconclusionato e inutile nonché sgradevole.
L'unica scelta possibile, alla fine, è alzarsi di scatto dalla poltroncina e abbandonare il buio della sala e farsi accarezzare dalla confortevole luce del sole (e della ragione).
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