Regia di Edoardo Leo vedi scheda film
Sono passati oltre 30 anni, tanti ce ne sono voluti per riascoltare (rapiti) le emozionanti note emanate dal grande schermo di una sala al buio dell’intramontabile canzone Paradise, quella dell’omonimo film le cui tracce, seppur flebili, ancora sono presenti nella memoria di una generazione oggi adulta ma non per questo risolta e consapevole.
Il paradiso dei nostri giorni non profuma di essenze esotiche, non è fatto di oasi da favola e paesaggi incontaminati, di corpi giovani e perfetti, di cattivi che poi abbandonano la scena, di sogni che alla fine della storia son belli e realizzati.
Oggi, per i disillusi quarantenni, che da bambini sognavano di vivere come in quel film e crescevano portando negli occhi il color rosa di un pensiero ottimistico e quindi vincente, il paradiso è appena il piccolo spazio che vorrebbero ritagliarsi nel mondo, l’idea da concretizzare in cui investire tutto se stessi (anima cuore e portafoglio -quando c’è-) e costruire un avvenire degno di essere vissuto perché considerato il luogo dove sentirsi e sapersi a proprio agio, scoprirsi felici e appagati e dove il sudore, i sacrifici non gravano sulle spalle come pesanti macigni. E l’ostilità di chi rema contro può essere affrontata, magari perfino neutralizzata.
Qui il paradiso, per i nostri 3 protagonisti, ed altri 2 aggiuntisi successivamente, è un agriturismo nelle assolate campagne campane, un vasto appezzamento di terra che pare immerso in una dimensione ancestrale, lontano dalla frenesia e l’affollamento (e l'indifferenza) metropolitani, dove il tempo sembra essersi fermato, dove poter ricominciare daccapo.
E mettere finalmente radici.
Dopo anni di nomadismo imposto dai dettami della new economy in salsa italiana, dopo aver vissuto a testa bassa senza mai uscire fuori dal seminato, impegnati a costernarsi e a sorridere per pura formalità, arriva la svolta, l’occasione -unica- per dedicarsi ad un progetto folle ma in cui si crede.
Per plasmarlo della propria essenza.
E vederlo crescere come un figlio.
Sviluppare per esso quel senso di appartenenza che oggi, visti i tempi così volubili, pare scomparso.
Dal solido sodalizio con il bravo Stefano Fresi (Smetto quando voglio) e Claudio Amendola (che lo ha diretto ne La mossa del pinguino), Edoardo Leo sforna l’opera della sua conferma artistica, una commedia agrodolce, divertente e malinconica insieme, forte di un buona direzione e di uno script accattivante, denso ed efficace, dove i caratteri principali hanno tutti uguale peso e medesimo spazio sulla scena, ed i personaggi di contorno, seppur per brevi apparizioni, sanno come lasciare il segno.
Agile, fluido, brioso, Noi e la Giulia mantiene per tutto il tempo un ritmo andante, non si accomoda e non si perde nelle battute finali, aggirando sapientemente le trappole della noiosa ripetitività, del tutto plausibili visto il suo svolgersi in un‘unica unità di luogo, che diviene, al contrario, il principale punto di forza -e non la semplice cornice occasionale dove calare la vicenda- di una pellicola certamente singolare, godibilissima, da affiancare alle ‘gemelle’ Smetto quando voglio e La mossa del pinguino, per la capacità di far sorridere e insieme riflettere sull’inadeguatezza alla vita di quella generazione rimasta sospesa tra il vecchio ed il nuovo, impossibilitata a seguire le orme dei padri ed impreparata a rispondere alle drastiche trasformazioni dei tempi correnti, instabili e precari, artefici di incondizionata elasticità e disumana versatilità, mentre questa si ostina a muoversi dentro rigidi schemi precostituiti vivendo di aspettative irrealizzabili perché definitivamente crollate, inseguendo obiettivi prestabiliti che forse nemmeno condivide, guardando se stessa proiettata in un futuro impossibile che le fa perdere di vista il presente.
E intanto lascia scorrere via, in un laconico silenzio, il suo diritto alla vita.
Ad un sorriso che nasca dal cuore. Ad una salutare risata di gioia.
È una generazione (per la maggior parte) di falliti, di adulti mai cresciuti perché nel profondo hanno preferito cullare e proteggere i propri sogni piuttosto che tentare di realizzarli, per comodità, per condizionamenti esterni, per paura di fallire, perché non posseggono lo spirito giusto o i giusti mezzi in grado di sovvertire le regole della propria esistenza. E renderla migliore.
E l’incontro con la criminalità organizzata locale e i suoi piccoli affari sporchi finiscono per essere la miccia che innesca la trasformazione.
Radicale, irreversibile (forse).
La lotta di classe ad oltranza, di uno stantìo comunismo, che oggi suona stonata anacronistica irreale, risorge dalle sue ceneri per adattarsi alla nostra grande depressione.
Cambia pelle ma non obiettivo: combattere, per difendere il proprio angolo di paradiso faticosamente ritagliato, per impedire ai prepotenti e ai parassiti di appropriarsi di quello che non gli appartiene.
Per tener in vita (invece di veder morire e seppellito per sempre) quell’ideale di vita miracolosamente reso possibile.
E l'epilogo sospeso, insolito e poco rassicurante per una produzione che guarda al grande pubblico, è una scelta coraggiosa, il chiaro segno di come Noi e la Giulia guardi altrove e oltre gli orizzonti limitati del nostro spesso disastroso, innocuo quanto irritante, cinema nazional-popolare.
No, non è un’altra stupida commedia italiana.
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