Regia di Simon Curtis vedi scheda film
Vera storia di Maria Altmann e della sua guerra legale contro il governo austriaco per entrare in possesso del Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, realizzato da Gustav Klimt sui lineamenti di sua zia Adele e confiscato dai nazisti a Vienna. Al di là di personaggi bidimensionali, di un umorismo in filigrana mai sostenuto da un’adeguata scrittura e di un didascalismo emotivo ribadito a livello dialogico e registico, Woman in Gold offre un tripudio retorico rimasticato e goffamente dissimulato attraverso la scelta di una doppia pista di racconto. Da una parte si incrociano Monuments Men di George Clooney, con il recupero dell’arte sottratta dalla storia alla storia, e Philomena di Stephen Frears, con l’incontro tra Maria e il giovane avvocato come pretesto per sciorinare stereotipi sulla distanza generazionale a base di contrapposizioni sfiatate (lei scorbutica ma determinata, lui impacciato ma geniale). Dall’altra si torna indietro per assistere a un ricatto strappalacrime su ciò che accadde alla famiglia di Maria durante l’Olocausto, con tanto di ricordi/fantasmini a entrare nel presente. Se la linea processuale è un colabrodo narrativo, quella introspettiva è anche peggio, arata da una regia inerte che cerca la sacralità con espedienti elementari (l’inquadratura dal basso, il carrello all’indietro) e si aggrappa al volto di Helen Mirren come ultima speranza. Malriposta, perché l’attrice inglese naviga a vista nel mare non suo di un personaggio frainteso.
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