Regia di Enrico Caria vedi scheda film
Non è facile fare l’occhio all’estetica urticante di Enrico Caria. Il suo lungometraggio d’esordio ce la profonde a piene mani, fin dai primi istanti, girando voluttuosamente il coltello nella piaga del disgusto. In uno scenario fantascientifico da post guerra chimica, la napoletanità risulta ridotta ad una bruttura criminale, cinica anche quando si trova dalla parte dei buoni, e dunque viene impiegata in una lotta a fin di bene. Caino è il cognome dell’eroe positivo, l’agente speciale chiamato a liberare un ostaggio caduto nelle mani di don Gaetano Carone detto O’ Turco, il feroce tiranno dello stato di Giunnapoli. La sua missione si svolge in mezzo ad un mondo che appare in preda ad un degrado volgare e molto kitsch, fatto apposta per indurre a storcere il naso, ma non abbastanza creativo e disciplinato da risultare intrigante. Il trash è usato a mo’ di patina ruvida, posata sulle immagini come una polvere sporca: un’incrostazione che trattiene lo sguardo e scortica il pensiero, e forse intende rappresentare l’attrito tra una realtà rozza ed una tradizione deprimente da cui il progresso non riesce a scardinarla. Se questo era lo scopo, non si può negarne la perfetta riuscita: ma l’effetto ammorbante finisce qui per monopolizzare la scena, a scapito della comicità e della polemica, che pure sembrerebbero, anch’esse, rientrare tra i principali obiettivi del film. Questa parodia dell’universo camorristico, affidata ad alcuni noti interpreti della musica e del teatro partenopei – primo fra tutti Peppe Barra – rimane purtroppo confinata, anche sul piano artistico, nella torbida primitività a cui si ispira. Pochi spunti originali, per altro attinti ad una visionarietà da horror pecoreccio, si innestano su un tessuto di luoghi comuni, che sottraggono vigore all’approccio caricaturale. È tetro, benché buffonesco, questo carnevale celebrato con le cozze assassine ed i trofei di pelle umana: il sangue, rimescolato nel calderone di una satira da avanspettacolo, si riduce ad un ingrediente da quattro soldi, un dettaglio di un insieme che risulta ripugnante solo perché frutto di una maldestra manipolazione dello squallore. Di questo 17 si salva comunque l’incrollabile coerenza stilistica, che davvero non molla mai la presa, assicurandoci, dall’inizio alla fine, una full immersion nella più totale spazzatura cinematografica: una “spazzatura” che, in effetti, – occorre ammetterlo - è troppo pura per non essere considerata d’autore.
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