Regia di Sebastian del Amo vedi scheda film
Chi si ricorda di lui. Eppure è stato coprotagonista di uno dei più noti ed acclamati film della storia. L’interprete del ruolo del fedele maggiordomo, a fianco di una stella di prima grandezza, negli anni ruggenti di Hollywood. Il suo nome d’arte nacque forse per caso, da una battuta improvvisata sul palco di un localino messicano di terz’ordine, in risposta all’insulto rivoltogli da un avventore ubriaco. Mario Moreno – questo il suo vero nome – era un uomo del popolo, dotato di un naturale talento comico. Riusciva, in un attimo, a conquistare la scena, parlando a ruota libera, facendo smorfie, accennando buffi passi di danza. Con il sostegno di una buona dose di fortuna, non tardò a diventare famoso in tutto il mondo. Mike Todd – produttore per la United Artists de Il giro del mondo in ottanta giorni (1956) – dovette penare non poco per aggiudicarselo come membro del cast. Fu così che Mario divenne Passepartout, la spalla dell’indimenticabile Phileas Fogg impersonato da David Niven, vincendo un Golden Globe e contribuendo a traghettare la pellicola verso il prestigioso traguardo di ben cinque premi Oscar, tra cui quello per il miglior film. La storia raccontata da Sebastian del Amo è un biopic dolcemaro, che scaturisce da una miseria striata di smagata allegria, per approdare ad una gloria luminosa, eppure cosparsa di lacrime. La mano di Estanislao Shilinsky – talent scout e primo manager di Cantinflas – che tira fuori da una pozza di fango il ragazzo appena cacciato dal titolare di un night segna l’inizio di un percorso artistico non sempre facile, ma costantemente mitigato dalla voglia di sorridere, anche di fronte alle umiliazioni e alle incomprensioni. Cantinflas si piace, a prescindere dal giudizio della gente, apparendo smisuratamente sicuro di sé e della propria capacità di addomesticare il mondo, pur senza avere studiato, né avere mai imparato un mestiere. Il suo piglio dal carattere singolarmente ambiguo – simultaneamente goffo e disinvolto – risulta così spiazzante da mettere fuori combattimento ogni avversario e forse perfino fermare il tempo. Di fronte al suo fare spavaldamente impacciato, anche un toro inferocito, nell’arena di una corrida, si blocca, come incredulo, nell’attesa di capire cosa diavolo stia accadendo. La finta arguzia dell’impertinenza è il tratto distintivo di un umorismo per forza di cose non sapiente, e tuttavia insaporito dal pungente effetto sorpresa prodotto dalla mancanza di ogni sorta di pregiudizio o inibizione. Cantinflas colpisce a tradimento, andando a cogliere i punti deboli del discorso, per rigirarli e farli propri come le palline di un giocoliere. Davanti a tanta divertita sfrontatezza, non c’è regola che tenga, non esiste copione che possa dettar legge. Lo spauracchio de registi è un demonio che rimescola follemente le carte per dimostrare come la ragione sia debole, e l’abitudine una noia mortale da spazzar via con il risucchio d’aria provocato da uno scioglilingua. Il tono di questo film - mai troppo misurato, mai troppo sfavillante – asseconda in pieno il carattere spigoloso ed acerbo, e in fondo fragile, ma corazzato di sgangheratezza, che trasforma la povertà di mezzi e conoscenze in una bambinesca girandola di furia dissacrante. Dal poco è nato il tutto di chi si accontenta, la ricchezza di un animo semplice che attraversa l’esistenza a vele spiegate, sospinto dal vento tenace della voglia di provarci, ad ogni costo, accettando il rischio del ridicolo come una stuzzicante prospettiva da condividere con i presenti. La saga del successo si fa filastrocca, e bonariamente elude - finché può – l’ingresso nella leggenda. Il mito si affaccerà solo nell’istante finale, un secondo prima che il sipario, con un ultimo dispetto, si chiuda sulla nostra stereotipata ansia di celebrare l’eroe, applaudendo commossi all’ennesimo, dorato happy ending.
Cantinflas ha concorso, come rappresentante del Messico, al premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.
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