Regia di Stefano Chiantini vedi scheda film
La facile indignazione.
Il segreto per riuscire a far breccia su un pubblico è dargli in pasto ciò che vuole. Un po’ di risate, un po’ di seriosità. È il peccato originale di un genere di film che potrebbe intitolarsi “edificante”, consolatorio, accomodante, purché magari tratti di tematiche scottanti e importanti. Anzi, sono proprio quelle le armi a doppio taglio.
Thomas è uno scalatore, ha una vita familiare abbastanza insoddisfacente perché sta sempre lontano da casa, e i suoi migliori amici sono i colleghi con cui si intrattiene in appassionate bevute in compagnia. Quando però il lavoro comincia a scarseggiare e gli viene offerta un’occasione di lavoro in un paesino dell’Abruzzo, dopo qualche esitazione accetta. Lì sarà questione di tempo per comprendere che l’impresa per cui deve lavorare ha intenzione di realizzare un traforo ai danni del paesino stesso, che dal canto suo comincia a denunciare abitazioni spaccate da profondissime crepe e una popolazione spaccata a metà, fra chi si lamenta dei lavori e chi ritiene che saranno proprio quelli a garantire un miglioramento dello stile di vita.
Per quanto l’assunto possa presentarsi problematico, materiale interessante magari per un thriller drammatico (non si prenda troppo sul serio il paragone, ma non siamo poi tanto lontani dalle pretese genuinamente accusatorie delle Mani sulla città di Rosi), Stefano Chiantini al suo quinto film dichiara apertamente di aver preso una strada più “intimista”, che guardi al lato più spiccatamente umano della vicenda, sorvolando grossolanamente sugli eventuali intrighi che riguardano le intenzioni dei malfattori. E se questo sorvolare è alla fin fine accettato (orientativamente, accettiamo pure la smaccata avidità degli antagonisti, tra cui in questo caso è bene identificabile il personaggio di Ermanno), è il lato umano in fin dei conti ad apparire privo di spessore, semplice quanto i protagonisti di una fiction tv. Ognuno ha il suo ruolo, le sue intenzioni, i suoi interessi, e non c’è niente che lasci intendere un’evoluzione, una trasformazione, né tantomeno una ben precisa motivazione della propria posizione che trascenda argomentazioni ovvie e scontate (salviamo giusto Sandra Ceccarelli, nel personaggio più particolare ma sicuramente troppo marginale).
Inutile dire che anche l’estetica è da fiction tv, e appresso a quella la sceneggiatura, la fotografia, le musiche, tutto il comparto estetico che al massimo sa proporre i suoi buoni paesaggi costruiti ad hoc per enfatizzare il contrasto impresa edilizia e genuinità paesana (il ponte dell’autostrada e il piccolo centro abitato sviluppato sul fianco della montagna). Quando i personaggi entrano in scena, e chi li circonda cerca di dissimulare lo spiegone su chi si tratta, come si chiama e cosa fa (l’apparizione di Maya Sansa alla riunione di paese è imbarazzante) tra una battuta inutile e l’altra, si capisce in che misura il film si fidi pochissimo dello spettatore, e lo vizi con l’ovvietà e il già visto.
Senza nulla togliere alle interpretazioni degli attori (si accetti solo un po’ di irritazione di fronte ai fintissimi sbuffi di Giallini pensante sul da farsi), Storie sospese è il tipico filmetto intoccabile perché incentrato su un tema importante, ma sfiora per bene il ricattatorio specie con quel terribile finale che quasi eroicizza il protagonista e annuncia (se non si fosse capito già dalla prima sequenza) cosa è giusto e cosa sbagliato, chi ha ragione e chi ha torto.
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