Regia di Silvio Soldini, Giorgio Garini vedi scheda film
Felice Tagliaferri è uno scultore. Lavora soprattutto con la creta, che modella con movimenti rapidi delle dita, utilizzando i polpastrelli come fossero i suoi occhi. Felice Tagliaferri è cieco dall’età di 14 anni, solo a 25 (ricorda più volte, a riprova che «non è mai troppo tardi») ha scoperto di poter essere un artista, pure bravo, e di saper dare una forma fisica a immagini che vedeva solo con la mente. Come una sorta di spinoff di Per altri occhi, documentario del 2013 in cui Soldini raccontava la disabilità in chiave antiretorica, Un albero indiano sceglie uno dei personaggi del cast corale del film precedente e lo segue in un viaggio in terra straniera. L’India, per la precisione: Tagliaferri vi si reca per tenere un corso di scultura in una “scuola inclusiva”, che accoglie bambini e ragazzi affetti da handicap diversi (fisici, mentali, psicologici, sociali), in un contesto di per sé culturalmente ostile, complicato dalla povertà di mezzi e risorse. Un progetto portato avanti con testardaggine da un manipolo di insegnanti e sostenuto dalla Onlus italiana CBM, che infatti è anche produttrice di Un albero indiano; ma Soldini aggira, senza negarla, la committenza esterna, come in Per altri occhi disegna personaggi con pochi tocchi ben assestati e lavora attraverso libere associazioni d’idee, tracciando un’identificazione tra il coraggio semplice e quotidiano di chi è disabile e quello di chi lavora per e con loro, tra cento difficoltà. Che «l’unione fa la forza» sarà banale, ma è anche vero.
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