Regia di Francisco Vargas vedi scheda film
Nonostante la mano destra amputata in giovane età per via dell'esplosione di un petardo ad una festa di paese, Ángel Tavira ha imparato a suonare diversi strumenti, divenendo violinista e compositore e dandosi come scopo nella vita quello di insegnare, diffondere e salvaguardare la tradizione messicana attraverso la musica. Un anno dopo aver fatto di questo operaio delle sette note classe 1924 l'oggetto del documentario Tierra caliente... Se mueren los que la mueven, il giovane regista e sceneggiatore Francisco Vargas lo ha voluto come interprete principale di quello che (alla luce della morte, sopraggiunta nel 2008) è rimasto il suo unico film recitato, El violín, che nel 2006 gli ha permesso di vincere il premio come miglior attore a Cannes nella sezione A Certain Regard nonostante la mancanza di qualsiasi titolo specifico in fatto di recitazione.
Mosso da intenti non dissimili da quelli che hanno caratterizzato il percorso dell'anziano protagonista, Vargas ha coinvolto nell'operazione, oltre a lui, una serie di attori per lo più non professionisti, e scelto di proporre l'intero racconto in un bianco e nero profondo e cupo, bandendo tutto ciò che potesse ricondurre direttamente ad un'idea di Messico stereotipata fatta di sombrero e colori vivaci. Lo scopo principale di questa scelta è quello di fornire indicazioni il più possibile vaghe sui luoghi e sui tempi in cui l'azione si svolge: quella rappresentata nel film, infatti, potrebbe essere una zona rurale qualunque dell'America Latina, presa in un momento storico sostanzialmente recente ma impossibile da definire. Ciò che conta, per Vargas, è che chiaro sia invece il contesto politico, ovvero quello di un paese in cui la povertà si percepisce girando per le strade, mentre chi detiene il comando, anziché combattere le disuguaglianze che quella povertà generano, reprime con la violenza, le torture e gli omicidi ogni focolaio di rivolta.
Ángel Tavira interpreta - magnificamente - il ruolo di Plutarco Hidalgo, ed il violino del titolo è quello che al suo personaggio permette di guadagnarsi quotidianamente da mangiare, suonato in bar e ristoranti assieme alla chitarra del figlio Genaro mentre il nipotino Lucio gira per i tavoli ad elemosinare; un violino che, dopo la sparizione della nuora e della nipote durante l'incursione, terminata con l'occupazione, da parte dei militari nel loro villaggio, verrà utile a Plutarco per entrare nelle grazie dell'ufficiale di guardia ed ottenere, dietro l'impegno di suonare per lui ad ogni visita, il permesso ad accedere al villaggio stesso: teoricamente per controllare le condizioni del proprio raccolto, ma in realtà per cercare di sfruttare la custodia del proprio strumento musicale (e le energie del mulo sulla cui groppa viaggia) per portar fuori le munizioni rimaste lì nascoste e farle avere al figlio, che dei rivoltosi è uno dei leader e con loro è imboscato tra le colline adiacenti.
In questa che, proprio in virtù della suddetta assenza di coordinate spazio-temporali, assume col progredire degli eventi le fattezza di una parabola dal respiro quasi mitico sui soprusi del potere e sul concetto di dignità, emerge la volontà dell'autore di far propri i messaggi di pace che Plutarco, con la sua calma olimpica ed il suo garbo innato e senza alcun pulpito da calcare, sembra mandare ad ogni sguardo, ad ogni parola proferita e verso qualsiasi interlocutore, sia esso il temuto ufficiale di guardia, arrivato portando con sé morte e sopraffazione, sia esso l'amato nipote, destinatario privilegiato della sua saggezza: messaggi tanto semplici da sembrare banali e tanto inascoltati da apparire anacronistici, che vanno nella direzione della più sacrosanta delle utopie, quella di chi, tra gli Ultimi, per i propri cari e per il proprio popolo chiede ai governanti null'altro che rispetto e libertà.
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