Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Perché si parla così poco di Talk Radio? In pochi lo citano spesso e volentieri come uno dei lavori migliori di Oliver Stone mentre anche lo stesso regista americano, nella sua autobiografia del 2020 Cercando la luce edita in Italia da La nave di Teseo, lo cita frettolosamente, quasi con fastidio, per poi passare rapidamente ad altro.
Semplice, non solo il film è inteso come un riempitivo, un lavoro a bassissimo budget svolto da Stone tra due progetti, Wall Street e Nato il 4 di luglio, per lui molto più importanti e personali, ma (soprattutto) ha incassato pochissimo, un vero e proprio insuccesso, oltre a presentare tematiche piuttosto controverse e/o disturbanti, allora come adesso.
Dopo tutto, chi mai vorrebbe andare al cinema a vedere un protagonista (e un film) che, in modo esplicito e diretto, ricorda all’umanità quanto fa schifo mentre è lui stesso a comportarsi in modo spregevole, ipocrita e offensivo?
Eppure, è proprio questo il fascino e il merito nascosto (ma non poi così tanto) di Talk Radio.
Tratto dalla commedia teatrale scritta dallo stesso Eric Bogosian, attore protagonista anche della pellicola di Stone, e ispirata al romanzo Talked to Death: The Life and Murder of Alan Berg scritto da Stephen Singular (e dalla quale Costantin Costa-Gavras trarrà poi a sua volta ispirazione per il film Betrayed-Tradita con Debra Winger e Tom Berenger) basata sull’omicidio razziale di Alan Berg da parte di un militante del KKK nell'84, ben lontano dall’imperioso affresco bellico di Platoon come anche dalla cinica descrizione della finanza americana in Wall Street, con Talk Radio il regista sposta l’obiettivo sull’antisemitismo, sul ruolo dei media nell’influenzare (negativamente) l’opinione pubblica e sul declino etico e morale della moderna civiltà americana.
Con uno stile secco e più minimalista rispetto al suo solito, Stone gira il film completamente tra le pareti di uno studio radiofonico, “on air” per la maggior parte del tempo, tra un montaggio serratissimo e dialoghi caustici e brillanti in un continuo botta e risposta tra protagonisti di cui, spesso, ascoltiamo soltanto la voce e quindi privo di un volto (e quindi di identità) in modo da acuire il senso di oppressione e claustrofobia della pellicola come pure dei temi trattati, tra antisemitismo e neonazismo, forse la parte meno interessante dell’opera in quanto lascia ben poco spazio alla riflessione per quanto è scontata, mentre risulta molto più interessante il legame, quasi sempre tossico, che si viene a creare tra la star radiofonica, ebreo progressista antipatico, saccente e arrogante, e il suo pubblico, principalmente reazionario “barra” conservatore e ben lontani, quindi, dalle sue idee.
Tutti lo odiano, per un motivo o per l’altro, e tutti lo chiamano per insultarlo, minacciarlo o sconfessarlo eppure... eppure tutto lo ascoltano, come rapiti da una parlantina che comunque affascina per il suo stile asciutto e diretto.
Quindi perché lo ascoltano se non sopportano quello che dice? E perché lo chiamano o sentono comunque il bisogno di confrontarsi con lui?
È questo il nodo dell’opera, una denuncia lucida e glaciale del declino etico e morale di una società che si definisce democratica ma che però rifiuta il contradditorio, che disprezza e arriva a odiare chi la pensa diversamente da lui ma che, al tempo stesso, ha bisogno di questo “nemico”, per radicalizzare la propria identità ma anche per giustificare la propria rabbia e i propri istinti più bassi.
La radio in quanto tale diventa quindi un mezzo di comunicazione tossico, ostile nel senso che riesce ad accendere interesse (e quindi a produrre soldi?) soltanto (ma è davvero così!?) aizzando l’odio e l’ostilità degli uni verso gli altri.
E’ la funzione o il modo in cui viene di solito utilizzato qualsiasi altro mezzo di comunicazione.
La stessa TV con i Talk Show ma anche (purtroppo) il cinema (a volte) come anche i giornali e Internet (vedi soprattutto i social, nuova culla di degrado sociale e ideologico ) funzionano tutti nello stesso identico modo.
Soltanto dopo l’eliminazione del nemico i toni possono tornare a farsi pacati, almeno fino al sorgere di nuovi “bisogni” e quindi al manifestarsi di un nuovo “nemico” da abbattere.
In un certo senso il percorso del protagonista di Talk Radio sembra quindi quello di un novello “messia”, in realtà piuttosto alternativo (al passo coi tempi?), che, pur comprendendo probabilmente soltanto molto tardi del proprio ruolo, accetta e ricerca (anche inconsciamente?), il proprio ruolo di “martire” per della gente che finge di disprezzare ma che in realtà tenta disperatamente di scuotere dal loro torpore, seppur con un misto di eccessivo paternalismo e pedante denigrazione.
Se non il miglior film di Stone (quasi) sicuramente il più genuino e sincero, Talk Radio risplende soprattutto per un superlativo Eric Begosian, doppiato ottimamente da Roberto Chevalier (grazie al quale ha vinto il Nastro d’argento per il miglior doppiaggio), la cui enfasi e oratoria nel celeberrimo monologo finale si è giustamente meritato uno spazio, “piccolo” ma importante, nella storia del cinema.
Costruito completamente sul suo splendido protagonista, il cast del film comprende però anche Leslie Hope, John C. McGinley, John Pankow, Ellen Greene, Alec Baldwin e Michael Wincott.
Trascurato e ignorato dal pubblico, rinnegato (forse) dal suo stesso regista, Talk Radio si è infine rivelato troppo esplosivo, troppo vero e fin troppo diretto nel suo raccontare la verità senza troppi filtri per poter essere comunemente accettato ma rimane (probabilmente) la pellicola che più altre rappresenta l’idea stessa di cinema di Oliver Stone, che lui stesso lo riconosca oppure no.
VOTO: 8
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