Regia di Stella Savino vedi scheda film
Molti non sanno cosa sia. Ed alcuni pensano che nemmeno esista. Eppure sempre più persone, soprattutto giovani, si vedono appiccare addosso quella sigla, che ha il suono di condanna a vita. Quattro lettere per un marchio di diversità. Per dare una veste clinica ufficiale a quello che, forse, è solo un aspetto del carattere individuale, la manifestazione di una particolare sensibilità, l’espressione incompiuta di una creatività in divenire. Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Con questo nome viene catalogata, nel DSM, il registro americano dei disturbi mentali, una malattia psichiatrica che potrebbe, semplicemente, non essere tale, in quanto frutto di un malinteso scientifico o di una forzatura imposta dalla potente lobby delle case farmaceutiche. I suoi sintomi sono estremamente comuni, e colpiscono soprattutto i bambini in età scolare: irrequietezza, disorganizzazione, eccessiva vivacità, difficoltà a concentrarsi, scarso rendimento nello studio. È stato sviluppato un questionario per diagnosticare questa presunta patologia, che sempre più spesso viene trattata con la somministrazione, in via permanente, di sostanze anfetaminiche. Il documentario di Stella Savino, girato tra l’Italia e gli Stati Uniti, raccoglie le testimonianze di alcuni genitori e ragazzi, che dalla terapia hanno tratto un deciso giovamento, ma anche qualche effetto indesiderato. Al di là delle controversie tra clinici e ricercatori, e sulle quali è impossibile prendere posizione, resta, sullo sfondo delle storie raccontate, la sensazione avvilente che la cura venga avvertita, dagli interessati, come una pressione a diventare uguali agli altri, soggetti efficienti e socialmente integrati, vale a dire omologati, funzionali agli scopi collettivi e nonché corrispondenti ai modelli della modernità. Sorge il doloroso sospetto che Adriano e Zache, da questa e dall’altra parte dell’oceano, non siano mai stati liberi di essere loro stessi: fin da piccoli sono stati costretti a prendere le pasticche perché disturbavano durante le lezioni e prendevano brutti voti. Il film ci fornisce, intorno al loro caso, una manciata di dati statistici ed alcune notizie storiche: troppo poco per farsi un’idea della reale natura di quel male, che probabilmente è davvero avvolto nel mistero, o magari è volutamente mantenuto nell’indeterminatezza, al riparo da indagini che potrebbero ledere gli interessi economici di qualcuno. Dopo la visione di ADHD – Rush Hour non possiamo affermare di saperne tanto più di prima, però dobbiamo senz’altro ammettere di avere scoperto l’esistenza di un problema, di una ambiguità, che da uno specifico dubbio di carattere medico si estende all’ambito filosofico in cui si discute del significato del concetto di normalità. Il discorso si intreccia, necessariamente, con la questione etica della tolleranza. La domanda è se sia più giusto abbandonare a se stesso chi non riesce a tenere il passo, oppure intervenire per aiutarlo ad accelerare il ritmo e recuperare lo svantaggio. La risposta diviene meno scontata, se si riformula l’interrogativo: basta cambiare leggermente le parole, per vederlo trasformarsi nel dilemma tra la disponibilità ad accettare il prossimo, con tutte le sue debolezze e singolarità, e la volontà di modificarlo, al fine di adeguarlo ai canoni vigenti. La disumanizzazione, ricordiamolo, inizia con il livellamento. Come quello che, producendo pillole e compresse in serie, ci vuole trasformare in una massa di consumatori seriali di chimiche illusioni di felicità.
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