Regia di Shawn Levy vedi scheda film
Con il capitolo numero due, la magia di Una notte al museo aveva manifestato il fiato corto, degli evidenti segnali di cedimento che nell’occasione della chiusura della trilogia prendono il sopravvento su qualsiasi altro aspetto.
Salvo sporadiche intuizioni, associabili esclusivamente a scene fini a se stesse, non c’è veramente nulla da salvare, né la fantasia espositiva, ridotta ai minimi termini, né l’indice comico, che vede commedianti di lungo corso annaspare anche nel loro territorio preferito: l’improvvisazione.
Nel museo di storia naturale di New York, la tavola che permette alle attrazioni presenti di prendere vita ogni notte sta cadendo a pezzi e per risolvere la questione, Larry (Ben Stiller), il direttore delle operazioni notturne, decide di recarsi al British museum per chiedere l’aiuto di colui che meglio la conosce: il faraone Ahkmenrah (Ben Kingsley). Ovviamente, partirà portandosi appresso quei compagni d’avventura che hanno cambiato per sempre le sue nottate e la sua vita stessa, a cominciare dal figlio del faraone (Rami Malek) e Teddy Roosvelt (Robin Williams), mentre nel nuovo museo dovrà fronteggiare il carattere dinamitardo di Sir Lancillotto (Dan Stevens).
Quando si arriva al capitolo numero tre di un film di successo commerciale, non si possono pretendere novità deflagranti, ma allo stesso tempo lo spartito dovrebbe almeno sapersi difendere sul suo campo d’azione privilegiato.
Invece stavolta, oltre al rodato clima di familiarità, non si capisce da quale parte girarsi per trovare qualche segnale di vita con Shawn Levy incapace di cavare un ragno fuori dal buco, in uno show, come poi metaforicamente avviene all’inizio del film, spuntato, senz’anima.
Un coro a più voci con un solista – Ben Stiller – lontano dalla scorza degli anni d’oro, (s)oggetto, come gli altri compagni di scena, di uno sviluppo talmente ristretto da essere evanescente, con sottotrame, vedi il rapporto tra padre e figlio, talmente usurate da non aggiungere alcunché.
In scena, vediamo un nuovo museo ma la formula è vecchia (addirittura c’è un nuovo scheletro di dinosauro a creare fermento) e il procedimento diventa subitaneamente macchinoso, con un solo scatto d’orgoglio da annoverare a referto: un’opera di Escher diventa terreno di scontro e i ribaltamenti stile Inception scuotono dal torpore.
È comunque una semplice parentesi, giusto un paio di minuti, mentre altre potenzialità – la riproposizione dell’eruzione di Pompei e l’Ancilotto che a teatro rivive la sua storia con Hugh Jackman e Alice Eve interpreti sul palco nei panni di se stessi – ricavano spunti comici nella norma, se non addirittura sottoutilizzati.
Inoltre, la dirompente Rebel Wilson viene lasciata troppo in disparte, mentre è sconfortante ritrovare per una delle ultime volte Robin Williams in scena e vederlo così abulico, quasi rassegnato, con l’aggiunta (non richiesta) di un Ben Kingsley ridotto a macchietta (senza dubbio lautamente pagata).
Vedere così tanti comici impossibilitati, o incapaci, di fornire alcun contributo personale è un atto di masochismo ingiustificabile, così che anche il finale stesso non può che chiudere malamente un percorso lungo tre film, apparendo rabberciato, indeciso e contraddittorio.
Ultimo passaggio di un’esibizione stantia e sfibrata, disidratata da ogni impeto comico, costruita con articolazioni e idee attestate sotto il minimo sindacale, capace di impaludare il cospicuo materiale umano di cui dispone, a sua volta reo confesso vista l’inconsistenza delle singole valvole di sfogo.
Affannoso, compassato e sfiatato: una caporetto completa.
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