Regia di Roland Emmerich vedi scheda film
Emmerich abbandona (ma per poco tempo) il blockbuster fragoroso per darsi all'impegno civico e sociale: raccontando l'origine dei moti presso il locale Stonewall di N.Y. a cura di un gruppo di militanti LGBT per la salvaguardia dei propri diritti. Buone le intenzioni; più modesto il risultato, che si adagia su personaggi stereotipati e un pò triti.
31° TGLFF - TORINO - SERATA D'APERTURA
A vent'anni esatti dall'omonimo fim di Nigel Finch ambientato nei luoghi della prima storica rivolta omosessuale americana a New York nel 1968, il solitamente roboante e patriottico regista stelle e strisce Roland Emmerich lascia per una volta a casa extraterrestri e mostri cattivi, come anche le catastrofi naturali, per concentrarsi, con un insolita, anzi inedita vena intimista, sui fenomeni che alimentarono l'inizio delle rivolte di un gruppo di omosessuali, stanchi e logorati dall'atteggiamento di colpevolezza e di condanna che fino ad allora, ed ancora per molto, la società "regolare" era solito scaricare su di loro, considerandoli una vera e propria piaga sociale, se non addirittura una piaga sociale, se non persino un gruppo di persone malate e fino contagiose.
Per introdurre la vicenda, il film si concentra sulla fuga del giovane diciassettenne Danny, che, scoperto in flagranza di reato mentre flirtava con un compagno di scuola, viene letteralmente allontanato dalla scuola e dalla propria famiglia, ed indotto a trasferirsi e mischiarsi alla folla indistinta della grande città di New York. Dove tuttavia la comunità LGBT non se la passa molto meglio, attaccata com'è in ogni occasione da atti di discriminazione e oppressa da uno sfruttamento che ricorda i tetri e mortificanti principi che diedero vita alla schiavitù dall'Africa.
Con un ripetersi di flashback piuttosto sapientemente orchestrati, Emmerich si sposta dalla cittadina natale di Danny, oppresaa da un perbenismo cieco che non fa che creare discriminazioni e dubbi o sospetti da caccia alle streghe, alla vita dinamica e concitata presso la grande Mela ove approda il ragazzo protagonista, ospitato da un'anima generosa rtappresentata da un marchettaro dal cuore d'oro ma sfortunato e esposto ai rischi di un lavoro precario ed incerto come quello della vita di strada: ed iniziando altresì a partecipare altresì ai primi raduni organizzati da un affascinante giornalista (l'attore Jonathan Ryhs Meyer), con cui vivrà pure una breve ma appassionata storia sentimentale, peraltro bruscamente interrotta.
Sarà proprio il timido ragazzo di campagna (così lo apostrofavano inizialmente i suoi diffidenti primi amici al suo arrivo in città) a dar vita lla miccia che farà esplodere la rivolta: una sommossa per rivendicare con orgoglio i torti subiti e le violenze e le ingiustizie perpetrate da una polizia corrotta e venduta alle cosche malavitose, le stesse che finivano in parte per sfruttare la prostituzione e schiacciare interi quartieri popolari.
Regista solitamente di grana grossa, che si lascia spesso, se non sempre, sopraffare dalle tentazioni irriducibili a strafare ed abbondare in forme di narrazione retorica a mio giudizio insostenibili, in attesa di rimettere il dito nella piaga con il seguito di quel micidiale Indipendence Day che fu però anche un successo di box office clamoroso ed epocale, ecco che Emmerich tenta la carta del film ispirato e dall'indubbio valore etico-sociale.
Nulla di veramente nuovo od insolito, qui in questo Stonewall: un protagonista bellimbusto che dà vita ad un personaggio da timido in corso di maturazione come se ne sono già visti in mille altre occasioni; una fauna colorata di drag queen e sciamannate in costume che finiscono inevitabimente per divenire delle macchiette un pò al serivzio di un burattinaio che non brilla per originalità di racconto né di rappresentazione. D'altronde che Emmerich non fosse Friedkin (che col suo sessantottino e strepitoso "Festa per il compleanno del caro amico Harold" fu si - lui - un anticipatore e un trasgressore di grande acume) era cosa ampiamente risaputa; pertanto apprezziamo il cambiamento di stile (durerà poco, visto che è già pronto ed in uscita Indipendence Day 2...orrore annunciato...) e gli sforzi fatti per discostarsi dal genere facilone e acchiappasoldi che ha fatto da sempre la fortuna (commerciale) del regista di origini tedesche, evitando di soffermarci troppo sulle enfasi narrative e le facili sciorinate sentimentali a cui il cineasta pare non riesca proprio a sottrarsi, scadendo inevitabilmente nel luogo comune di un déjà vu a tratti bolso ed insostenibile. Tra gli attori, oltre al citato Rhys Meyer, il granitico Ron Perlman e il sofisticato Caleb Landry Jones (che tuttavia meritava una parte un pò più completa e sfaccettata) si riconoscono ed apprezzano più del monocorde ed qui un pò ebete protagonista Jeremy Irvine, più bravo qualche anno fa ancora da ragazzino diretto da Spielberg in War Horse e nel discreto remake di Grandi Speranze di Mike Newell.
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