Regia di F.W. Murnau, Robert J. Flaherty vedi scheda film
Se un canto esiste, in tutta la storia del cinema, d’intramontabile bellezza, un’elegia di vita e dolore, di slanci paradisiaci e ricadute abissali, quello è Tabù, struggente racconto dei Mari del Sud, cosmo umano riemerso come perla da remote profondità.
A Land of Enchantment. First chapter “Paradise”...e gli scultorei slanci si misurano alla pesca, in guizzi nel mare assolato, non ancora abissale. Saltano dai gusci di roccia e sorridono alle ninfe, scivolano tra le spume e i riflessi del verde lussuoso. Non v’è che gioco e bellezza per loro, sull’isola incantata il loro vivere è fiorire la grazia sui delicati slanci di una danza. Ero e Leandro della nostra era, scespiriani candori spiati avanti la tempesta, il ragazzo Matahi e la ragazza Reri celebrano del loro idillio il primo scorcio di mondo donatoci allo sguardo, ricamano la purezza d’animo in timida corona sul capo. Ma questa gioia, rigoglìo di un amore purissimo, leggerezza virginale che punge e scalda il cuore dello spettatore, è già incanto di lieve illusione. Il veliero del vecchio conte conduce il guerriero Hitu alle sponde ignare, spinge le sue vele l’arcana legge, verbo dei numi. Egli è il sacerdote, l’ordine imposto al mondo primitivo e alla pienezza primigenia, effigie del destino toccato all’uomo, e nunzio dei destini. Reri è inviolabile, il tabù si posa sulla vita, fatalmente. Per Matahi, per l’uomo, l’infrazione è inevitabile, il rapimento della fanciulla è l’inizio della fuga. Il desiderio, nel fondo interiore insegue inarrivabili chimere, s’accende vitale e sovrumano imponendo la sua eco in ogni era e luogo, oltre i canoni morali, oltre gli ordini religiosi e ogni legge apollinea e immanente. Il più misterioso istinto di vita, l’amore, arriva a lambire i suoi estremi, a invadere rive d’ignota perdizione, scatenando l’invidia divina e il retaggio di maledizioni primordiali. L’arrivo della civiltà, dopo l’affermazione della Legge, è solo l’ultimo atto della decadenza umana.
Il commiato. "Paradise lost"
Amore e morte si pongono agli estremi di questo mare di luce e tenebra, di carnalità plastica ed etereo annullamento, in cui le ombre si stagliano dall’ineluttabilità chiara, malinconica del lume lunare e del destino, adagiandosi come nubi e fronde sui volti e sui corpi, mosse dal fragile soffio della bellezza vitale. Reri e Matahi lottano coi tormenti della notte, si osservano dormire nella veglia, si nascondono il pianto e l’angoscia che tramano come serpi attorno ad una culla: la libertà fugge via senza loro, l’ingenuità sfuma nel risveglio, di cui Hitu è lo spettro evocatore. Forse non riusciremo mai a spiegarci pienamente quello sguardo in macchina, così grave e sconsolato, quasi un monito sulla distanza inesistente dei tempi, con cui Reri sembra esprimere un lamento profondamente umano, l’impossibilità di qualsiasi felicità, la necessità del sacrificio per amore. In una parola: la coscienza. L’innocenza è un petalo bianco che cade dai capelli e dalle mani, è il fiore di ibisco che si congiungerà -nel dolore e nell’addio- alla perla nera emersa dagli abissi. Ed è l’essenza intatta della vita, la vergine consacrata al Dio che ha scacciato per sempre l’uomo dal suo paradiso. Matahi, che già mentre dormiva era avvolto da minacciosa penombra, infrange il secondo tabù, trova l’ostrica che uno squalo sembra difendere e ne ruba il frutto prezioso per barattare il definitivo viaggio della libertà. Ma è troppo tardi, il messaggero del fato ha portato via la sua prescelta. All’ultimo inseguimento, sfinito e scoppiato nel cuore, il giovane è sommerso dai flutti, la sua fuga culmina nel mare agitato, impeto, baratro della natura irraggiungibile. La barca con Hitu e Reri scompare impassibile, le onde si accavallano mestamente nell’oscurità. Il mare è il torbido specchio sotto cui sprofonda il nostro sguardo, insieme a quel corpo eternamente pulsante, giù nell’anima ignota di tutte le cose.
Girato in modo indipendente, volutamente senza dialoghi e sonoro (il film è del ‘31), basato su pochissime “didascalie” (quasi tutte diegetiche), privo di ricostruzioni artificiali e inscritto nel plein air polinesiano, interpretato da attori non professionisti nativi del luogo (Bora Bora, Tahiti), autofinanziato, scritto e montato autonomamente da Murnau stesso (inizialmente in collaborazione con R. J. Flaherty, che lasciò il set per contrasti), Tabù è una vera e propria epifania cinematografica, in anticipo sui tempi (come quasi ogni film del regista tedesco, nonostante, anche, per la scelta del muto), crudele quanto unica, ineguagliata nel suo essere estremamente vitale e totale, ai confini della civiltà, al cuore della civiltà. Un racconto dei primordi, un archetipo sempiterno del sentimento e del destino umano.
Un film sull’eterno conflitto tragico tra la legge e l’amore, e oltre, sulla tragicità come essenza dell’uomo, sulla proibizione (definitiva) dell’innocenza e della natura, con il duplice divieto imposto sulla ragazza e le acque (la cui dicotomia, paradigmatica dell’opera, superficie/profondo, sembra rimandare a quella tra pulsione di vita e pulsione di morte, vitalità e annullamento), e il cui sviluppo non conduce ad una ricomposizione, come in parte accadeva in Nosferatu, in Tartufo o Faust, e apparentemente in L’ultima risata e Aurora, ma alla perdita e alla frattura ultima tra l’individuo e il mondo. Il “farewell ” di Reri è irreconciliabile, come il ritorno di Matahi agli abissi, l’addio di Murnau alla vita di poco successivo al completamento del film. E come il taglio della corda di Hitu, uno dei gesti e simboli chiave di un’opera che ad un primo livello si dichiara come racconto (è probabilmente il mito dell’era contemporanea, esemplare nella sua semplicità narrativa e nella sua essenza archetipica) ma che si rivela segretamente come un profondo, complesso poema per immagini e musiche (una tragedia). Il visibile si staglia sul narrativo, il metadiegetico sul diegetico, la percezione sulla significazione, il simbolico sul reale, e come già detto, la tragedia sul mito. L’oppressione sulla libertà, l’oscurità sulla luce (Das Paradies - Das Verlorene Paradies), la civiltà sulla natura, la legge ( e la morte) sull’amore e la vita.
Le antitesi dominano il film a più livelli, narrativo, tematico, espressivo, dando vita ad un’operazione dialettica che, in senso diegetico ed estetico, conduce sì ad uno scacco doloroso, a una sconfitta umana, ma, nel suo cupo e vibrante romanticismo, ad un risultato che supera ogni implicazione nichilistica.
Ciò nonostante, nel senso tragico di Murnau la tensione tra opposizioni non ha soluzione, l’occhio impassibile e notturno del lume lunare sancisce tutta la distanza inconciliabile che rimane tra l’assoluto e l’esistenza, la divina e l’umana natura.
L’impulso alla libertà segue lo strappo dell’uomo alla totalità della vita (è su quest’ultima che pesa l’autentico Tabù), e sembra essere la sua condanna al cospetto di una potenza vitale oscura e inconoscibile. L’istinto ad eccedere la misura e il ruolo nel mondo, il porsi come individuo dinanzi all’esistenza e alle sue leggi al di là di ogni necessità e subalternità – gesto che conduce alla resistenza di una forza opposta (l’ordine civile) e che è il frutto della volontà del soggetto quanto il risultato dei processi vitali dell’esistenza stessa - non può che condurre l’uomo a soccombere. Tabù è lo scenario (naturale ma compromesso, autentico ma riprodotto, realistico ma metaforico) di un avvento notturno, in cui il tempo non è né ciclico né lineare, ma irredimibile, quasi azzerato in una dimensione d’eterno presente che comprime il principio e la fine in esiti già determinati. Spazio e tempo coincidono alla perfezione, il corso umano è compreso tra gli estremi del mithos.
L’arabesco “etnografico” e diurno si assottiglia progressivamente e rimane come fertile sfondo all’altorilievo drammatico, a sua volta controluce del sottotesto che incombe sul racconto per divenire afferrabile nelle sequenze chiave. In tali nuclei espressivi i fotogrammi sono quadri di significanza, il senso si condensa e stratifica in varietà di temi e riferimenti, in quello che è un esempio aurorale di cinema immaginale, dove l’immagine (come, ma ancor prima del montaggio) si fa rivelatrice di uno strato simbolico che trascende il ritmo della storia e il punto di vista del soggetto, di un orizzonte allegorico che sovrasta schemi narrativi e coscienza del personaggio, in cui il gesto è la risultante di dinamiche emotive, di tensioni profonde e al tempo stesso fatali, oscure che agitano l’inquadratura, il racconto filmico e l’universo in quest’ultimi compreso - e come nel già citato sguardo in macchina di Reri, ferma l’azione e apre alla visione, al pensiero e all’immagine mentale.
La superficie e il fondo dell’immagine mescolano buio e veli di luce, i due giovani corpi, come carne e spirito, sono abbandonati alla sospensione precaria tra la vita e le tenebre. Esattamente come le figure di Reri e Matahi, in quella che un'immagine emblematica della stessa forza e potenzialità dell'arte, anche la forma tende a esporsi sull’ignoto, l’ignoto sembra emergere nella forma.
Ciò nonostante, Murnau non mostra il cinema, ma lascia che la natura delle vicende e delle passioni umane si “plasmi da sé” in una creazione in cui forma e sostanza si compenetrano in unità inscindibile, in una piena acquisizione estetica, ispirata dall’irripetibilità degli eventi semplici, fatali, e universali.
Ciò che colpisce è la raffinatezza espressiva di un’opera che sebbene ricca di significante, riesce a non esibire la forma, evitando non solo un risvolto feticistico della prodezza cinematografica, ma anche la presenza (artificiale) della mediazione tra l’uomo e la realtà, il soggetto e l’oggetto. Essa non viene nascosta, viene annullata. Simboli e metafore (il fiore, la perla, il mare, lo squalo, le ombre, la luna, i personaggi, il coltello..) emergono con leggerezza dal tessuto unico della natura e del mezzo artistico, si armonizzano in un corpo costellato di immagini, melodie e ritmi che avvicinano la recondita trama di tensioni, meraviglie e crudeltà ordita sulle spoglie del vivente.
Tabù ha in ciò il suo segreto, nell’incarnazione di ciò che rimane essenza: la trasparenza della pellicola. Il superamento del cinema come polverizzazione della sua artificialità, la metamorfosi della falsità di un medium che catturi ombre e restituisca corpi, che raccolga frammenti e generi vita, l’affrancamento dal sistema istituzionalizzato e l’affermazione di un’arte pienamente libera.
L’ordine del cinema si instaura su quello della civiltà e della legge, il “residuo mitico” si fa tragicità cinematografica, l’unicità di una storia umana archetipica è cristallizzata su pellicola. E la vita in poesia. Il cinema è l’odierna forma civile/culturale di rottura del tabù, ma la fuga di Murnau sembra ancora quella del selvaggio Matahi, che invischiato nelle imposizioni e nelle pratiche corrotte della civiltà, nel dolore di un’esistenza oscura e crudele, si volge alla ricerca di quella purezza, di quella vita che sfugge irraggiungibile.
E quell’unicità irripetibile ha la forza di sopravvivere alla cristallizzazione, in quanto, fantasmi di luce o corrispondenze metafisiche, sinistre e irradiate, questa è un’opera in cui tutte le ombre continuano a vivere e ad agitarsi.
Mi sono oltremodo dilungato, e per una ragione: il film in questione è piuttosto tabù anche sul nostro sito (tre opinioni in vari anni....), ed è giusto che chi abbia curiosità e sensibilità possa interessarsene e consultarne una riflessione se non esaustiva, perlomeno un po' più approfondita.
Per concludere, Tabù è dunque un’opera abbastanza ai margini della cultura dominante (fortunatamente.. e mi contraddico volutamente con quanto appena scritto, poiché vi è una differenza tra ciò che viene esperito ma rimane integro e ciò che si violenta sotto volgarizzazioni mediatiche, spettacolari, pubbliche di ogni tipo), e che può essere ritenuta il prezioso dono, non tanto alla cultura stessa, ma a tutti gli spiriti liberi di un epitaffio inviolabile, il coronamento del cinema muto, ovvero di un’arte del silenzio come assenza miracolosa.
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