Regia di Masahiro Shinoda vedi scheda film
Una bizzarra storia di sesso e amore, dominazione e sottomissione, in ciclico avvicendamento.
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Un’ ampia sezione musicale affidata ai fiati accompagna i titoli di testa, nel tema sonoro di Toru Takemitsu e Shinichiro Ikebe risiede gran parte della suggestione del film.
La fotografia di Tatsuo Suzuki interviene ben presto a dipingere scenari naturali di bellezza tattile, materica, punto di forza di un film dal gusto pittorico fortemente estetizzante, ma anche teso a “prestare orecchio ai mitologemi”, direbbe Kerényi, cogliendone la forza rivelatrice.
La storia rappresentata nasce da un romanzo del 1947 di Sakaguchi Ango, pseudonimo di Sakaguchi Heigo, La foresta di ciliegi in fiore (Sakura no mori no mankai no shita).
Nel 2009, diviso in due puntate, divenne un anime della "Letteratura Blu" (Aoi Bungaku), 12 episodi prodotti dallo studio Madhouse che adattò sei romanzi classici moderni della letteratura giapponese.
E’ una bizzarra storia di sesso e amore, dominazione e sottomissione, in ciclico avvicendamento.
Un ramo di ciliegio in fiore che stormisce leggero dà il via al repertorio delle immagini, quindi la macchina scende su un prato affollato in gran disordine, pic-nic in corso e traffico che scorre sullo sfondo, si suona, si mangia, si festeggia qualcosa.
Una voce infantile dice:
E’ la festa della fioritura dei ciliegi che, a partire dal periodo Edo é diventata una scusa per far festa.
Prima questi alberi spaventavano. Immaginatevi soli sotto i ciliegi in fiore…
E’ il segnale d’inizio, il salto nel tempo della fiaba.
Una sequenza di raccordo, tempo intermedio fra l’atemporalità arcaica del mito e il divenire storico, fa ora da cerniera.
Un viandante, passo spedito e grosso carico sulle spalle, imbocca il viottolo che attraversa il bosco di ciliegi.
Entrano nello spazio sonoro i sintetizzatori, fitte trame di accordi graffianti e perforanti, l’atmosfera si carica di sospensione e inquietudine, un’arpa modula una frase breve, un suono cupo e prolungato di tuba invade ogni cosa, l’avvolge di presagi, ancora qualche secondo e il viandante si ferma, é confuso, gira intorno a sé stesso, sembra perdere l’equilibrio, il rosa dei fiori é intenso, ovattato, soffocante.
La ruvida corteccia scura dei tronchi incide righe verticali sul morbido manto rosa, i rami si protendono, un vento leggero gonfia i fiori, stacca i petali.
Le note si fanno sempre più acute, dissonanze stridenti perforano i timpani, lame nel cervello, migliaia di piccoli petali volteggiano fitti, deliranti.
L’uomo tende le mani, le stringe alle tempie e urla, pazzo di paura, corre via, butta a terra il carico, si aggrappa ad un tronco.
L’immenso cuscino rosa ondeggia leggero, un’energia misteriosa lo agita.
La voce prosegue:
Si credeva che passare sotto i ciliegi in fiore facesse perdere la ragione e i viaggiatori facevano lunghe deviazioni per evitare di attraversarli.
Nessuno si avventurava sotto, c’era il silenzio.
La storia del bandito e della donna angelo/demonio può ora iniziare e culminerà in una metamorfosi, perché “la metamorfosi, in un mito, é elemento che nasce dal bisogno di spiegare le cose umane in termini extra-umani e dall’idea che esistano possibilità di transizione fra i regni della natura” (H.Frankel, Ovid:A Poet between Two World, Berkeley 1945).
Un rozzo e sanguinario bandito di montagna (Tomisaburo Wakayama) assale i viaggiatori di passaggio e li deruba, stupra le loro donne ed ha una notevole collezione di mogli nella capanna isolata in cui vive. Quando però la bellezza misteriosa di una donna (Iwashita Shima) lo cattura, ne uccide il marito e il servo e la porta con sé.
La donna non si ribella, piuttosto sembra attirata dalla prestanza virile dell’uomo, dunque accetta di seguirlo, anzi, pretende che lui la porti sulla schiena, instaurando così un rapporto di dominanza femminile che ribalta i presupposti iniziali e porterà nello sviluppo degli eventi conseguenze di ampia portata.
Quello che accade, infatti, da questo momento fino al finale, si presta a molteplici chiavi di lettura (antropologica, psicanalitica, figurale, allegorico-morale), nessuna prevalendo però sull’altra, come in ogni buon prodotto artistico, piuttosto compenetrandosi a vicenda e, quel che più conta, lasciando allo spettatore il diritto di godere della spettacolarità del prodotto, indubbiamente intrigante.
L'antica leggenda giapponese che parla di uno spirito maligno femminile omicida che si sveglia con la fioritura dei ciliegi selvatici fornisce a Shinoda il pretesto per declinare uno dei suoi temi di maggior interesse, il ruolo della donna nella società giapponese, tradizionalmente dominata da costumi fallocentrici.
L’asservimento a cui la donna costringe il bandito é determinato dalla seduzione che lei, bella, raffinata, misteriosa, esercita sull’uomo rozzo e sanguigno, abituato ad amori selvatici, tremendamente intimidito e contemporaneamente attratto sessualmente da lei.
L’esito di tutto questo é una lunga scia di sangue che lui sparge per appagare i desideri deliranti della donna, specie di mantide che rivelerà solo alla fine la sua doppia natura.
La pazzia, la morte, il legame amoroso e la pulsione sessuale, la bellezza e il suo risvolto mostruoso: come ogni mito contiene una storia che la fantasia confeziona con trame multiformi, la telecamera ne gestisce lo sviluppo nel tempo e nello spazio, in equilibrio tra realtà e allegoria.
Meno forte si avverte, nella rielaborazione di Shinoda, la componente politica di forte critica alle tradizioni presente nel romanzo di Sakaguchi Ango.
Tempi diversi,il film é del ’75, il romanzo del ’47, il clima avvelenato del dopoguerra, la delusione storica, la vergogna della sconfitta e il tramonto di millenarie certezze fanno scegliere al romanziere il simbolo più acclamato dell’orgoglio giapponese, reso carta straccia dalle potenze vincitrici del conflitto: il ciliegio in fiore.
I petali rosati, la loro meravigliosa leggerezza, una volta a terra diventano putrido marciume fangoso.
Così la bellezza incantatrice della donna, sembra dire Shinoda, la sua capacità di ammaliare e distruggere, sono l’altra faccia della medaglia, un modo come un altro, come tutti gli altri, di parlare del suo ruolo falso, adulterato, nella società degli uomini.
L’incipit del romanzo funziona allora anche per il film:
“La verità é che, quand’anche una ed una sola anima non si trovasse a contemplare i ciliegi in fiore, tutto ciò che rimane di selvaggio é la nostra follia”.
www.paoladigiuseppe.it
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