Regia di Luca Miniero vedi scheda film
Per un banale errore, una scolaresca napoletana si ritrova ospite di un istituto toscano agli antipodi. I metodi di studio e le filosofie differenti saranno alla base dei contrasti tra i due istituti, capitanati rispettivamente dal lascivo professor Gerardo Gregale (Rocco Papaleo) e dal rigido preside Filippo Brogi (Christian De Sica).
In “La scuola più bella del mondo” tutto contrasta. I metodi di gestione dei presidi, le tecniche d’insegnamento dei professori, le dinamiche d’assistenza dei bidelli, insomma gli assiomi di fondo delle scuole. È un film volutamente manicheo. E che dal manicheismo trae la sua forza (o almeno prova di farlo). La colpa (per qualcuno sarà “il merito”) è di Luca Miniero, regista che non vuole o comunque non sa discostarsi dalla formula che tanto successo ha ottenuto con “Benvenuti al Sud” ed il suo speculare sequel. La necessità di fare incassi diventa priorità imprescindibile, per cui oltre ai soliti nomi di richiamo (nel cast oltre ai protagonisti De Sica e Papaleo anche Angela Finocchiaro, Miriam Leone e Lello Arena), gli sceneggiatori sacrificano l’originalità in favore di una meno rischiosa routine. È quasi come se Miniero e la sua truppa avesse capito di aver avuto un grande successo coi film dei “postali” in trasferta forzata dall’altra parte dello stivale, ma non ne avesse compreso esattamente il perché. E siccome gli incassi ottenuti con la consuetudine sono preferibili ai plausi per l’innovazione ed il coraggio, l’autore napoletano rivede e corregge con un paio di magheggi e qualche adattamento la trama dei suoi precedenti, clamorosi successi, adeguandola ad una realtà differente, ma dalle medesime dinamiche. Ne viene fuori qualcosa di già visto, un cinepanettone già assaggiato l’anno prima, e quello prima ancora. Che è un po’ il difetto della commedia nostrana degli ultimi anni, incapace di rinnovarsi. Anzi, Miniero pare farne uno scudo, un vanto del proprio essere autore e, mutuando qua e là (i titoli di testa e i cartoon dai successi di Zalone, la veracità del wertmulleriano “Io speriamo che me la cavo”, il finale da “Scugnizzi” di Loy, addirittura qualche battuta dai film di Totò – come quella con cui si palesa al pubblico Lello Arena), prova a farne un film a sé stante. Poco importa se il tutto deve reggersi su una trama sottilissima, sempre sul punto di spezzarsi, tenuta su da una serie davvero incredibile di coincidenze e combinazioni varie, che se da un lato quasi fantozzianamente provoca la risata tragicomica, dall’altro fa storcere il naso per un’inverosimiglianza che è eccessiva anche per una commedia scanzonata come questa. Senza parlare delle numerosissime incoerenze e sciattezze nella scrittura. Nel cast, complessivamente fiacco, quella che ci mette più voglia pare Miriam Leone, che candidamente regge la parte della maestrina acqua e sapone, una specie di ingenua verginella dal potenziale inespresso, al contrario di un De Sica bollito e di un Papaleo che pare non avesse nessuna voglia di farlo questo film (si è vista anche la verve che ci ha messo nelle – numerose e ormai quasi obbligatorie – comparsate televisive alla vigilia dell’uscita nelle sale del film). Un film in cui quelle volte in cui si ride è per il ricorso a volgarità, talvolta veramente eccessive (come la gara di disegno di cazzi sulla lavagna luminosa in laboratorio), o le parolacce imposte della sindrome di Tourette, o la tenzone all’insegna degli sputi. Per il resto la si butta in caciara, si estremizza i contrasti perché poi sia più bello il finale, chiaramente e volutamente moralistico, all’insegna del “volemose bene” (rigorosamente detto in romano, in un dialetto dunque a metà strada tra Siena e Napoli, coerentemente con la volontà di non pestare i piedi a nessuno e di svolgere il proprio compitino con diligenza, passando poi alla cassa ad incassare i soldoni di un pubblico italiano oramai pavlovianamente assuefatto alle sciocchezze nutrite da tanto marketing e fatte di poca sostanza).
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