Regia di Andrew Renzi vedi scheda film
La "clochardizzazione" dell'aspetto non fa un personaggio.
Non lo fa nemmeno un attore, Richard Gere - che peraltro con l'età non pare aver affinato le esili capacità interpretative -, in costante reiterata modalità borderline. Trasandatezza, dipendenza (da idromorfone, per cominciare), sbalzi d'umore, schizzi d'ira, slanci di generosità eccessiva che in un attimo mutano in invadenza patologica. E, sopra ogni cosa, un segreto e sensi di colpa, vero - nonché unico - motore della schematica psicologia del Franny del titolo.
Filantropo, padre padrone di un ospedale pediatrico, drogato. Della povera "puzzola" (figlia della carissima unica coppia di amici alla base del segreto di cui sopra), tra le altre cose; il cui ritorno a casa e nella vita del vecchio innescano meccanicamente la storia e la portata morale d'una ordinarietà fin troppo palese.
Uno script alquanto convenzionale - non esente da dosi di drammaticità posticcia, alterata dall'uso di musichette struggenti all'uopo -, che tanto vorrebbe ammantarsi di una certa melanconia come suggerisce la bella fotografia che cattura splendide inquadrature autunnali, ma che in sostanza rimane mestamente ad uno stato larvale quanto ad approfondimento e messa in scena.
Prevedibili molte mosse, quantificabili in termini di resa "emozionale" situazioni "forti" e climax, generici i passaggi più significativi e generalizzata la (elementare) rappresentazione: come un bambino che piange, Gere reclama un'attenzione che avrebbe dovuto essere propria di scrittura e regia. Che invece si caratterizzano per un uso quasi "impiegatizio" di dialoghi privi di spessore, di flashback didascalici, di primi piani obbligati, di una conclusione assolutoria ed edificante, di una superficiale messa a fuoco del protagonista.
Di cui tutt'al più rimane una fugace, forzata impressione di simpatia; lo stesso si può dire di una Dakota Fanning forse volenterosa ma costretta in una parte avara di complessità e interesse.
Non basta la carineria a fare un film (oltretutto inserito in un territorio strabattuto) che, sfruttando meccanismi ovvi e abusate strutture narrativo-empatiche, non osa, mai, né riesce in alcun modo a incidere (e restare): il dimenticatoio è un destino già scritto.
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