Regia di Andrew Renzi vedi scheda film
Come spesso capita a quegli attori molto belli ma poco dannati anche Richard Gere ha dovuto pagare nel corso della carriera le conseguenze di un pregiudizio che ancora oggi, arrivato alla soglia dei settant'anni, influenza in negativo il giudizio sulle sue prove cinematografiche. Considerato dai più alla stregua dei tanti sex symbol che Hollywood sistematicamente produce per alimentare i desiderio del pubblico femminile, ci si dimentica spesso che Gere prima di assurgere a massima espressione di erotismo maschile ha incarnato una mascolinità tutt'altro che plastificata e invece ribelle e selvaggia così come la concepivano alcuni dei migliori autori del cinema americano degli anni 70. Dall'antesignano e scandaloso "In cerca di Mr Goodbar" diretto da Richard Brooks a "I giorni del cielo" del divino Malick e senza dimenticare le collaborazioni con Paul Schrader, Francis Ford Coppola e John Schlesinger, la filmografia di Gere continua ad essere attraversata dalle stimmate del cinema d'autore che al momento e per quello che lo riguarda sembra essere in sintonia con la nuova generazione di cineasti che si sta affacciando sulla scena americana e che dopo Nicholas Jarecki (La Prova) e Oren Moverman (Time Out of Mind) lo vede protagonista del primo film di Andrew Renzi che prima del suo esordio - e questo è di per se un indizio indicativo su quello di cui andiamo a parlare - si era messo in evidenza al Sundance Film Festival con un paio d corti che avevano vinto premi e attirato l'attenzione degli addetti ai lavori.
Del film di Renzi l'attore americano è l'assoluto protagonista non solo perché la storia del benefattore disposto a tutto pur di risarcire in qualche modo la figlia dei suoi amici fraterni della cui morte si sente responsabile amplifica l'alone di spiritualità e di predisposizione verso il prossimo che appartiene alla sfera pubblica dell'attore, impegnato su più fronti per dare voce alle cause di perseguitati e oppressi. Succede infatti che, oltre a prodigarsi per migliorare il ménage matrimoniale dell'amata Olivia, facendo assumere il marito nell'ospedale di cui è proprietario e provvedendo alla sistemazione della coppia nella casa che un tempo apparteneva ai genitori di lei, il munifico filantropo faccia uso di alcol e della morfina, assunti in dose massiccia per cercare di placare il senso di colpa che lo perseguita dal giorno dell'incidente in cui sono morti i genitori della ragazza. Così facendo il personaggio interpretato da Gere si riveste di una personalità nel contempo vitale e autodistruttiva che permette all'attore di esplorare l'intero spettro emozionale, passando da stati d' incontenibile euforia a momenti di assoluta depressione. Ad occhio e croce siamo dalle parti di una tipologia umana che potrebbe essere quella disturbata e bipolare già messa in scena da Gere in "Mrs Jones" e quindi di un One Man Show che soprattutto nella prima parte - quella in cui Franny ritorna alla vita dopo l'esilio punitivo a cui si era costretto - assume proporzioni a dir poco debordanti, con il protagonista talmente euforico da esibirsi in assolo canterini con tanto di orchestra ad accompagnarne l'esibizioni. A differenza del film di Mike Figgis che faceva leva su una star al massimo del suo splendore quello di Renzi lavora in senso opposto, utilizzando la decadente fisicità dell'attore americano (non a caso inquadrato di spalle nelle scene in cui compare a torso nudo) per amplificare il senso di sconfitta e la sofferenza del protagonista, destinato a un percorso salvifico che la sceneggiatura rende prevedibile e finanche programmatico ma che non di meno risulta credibile per la combinazione tra la prova d'attore di Gere, davvero ottima, e le qualità delle riprese, che nell'approccio impressionista della mdp trovano la maniera di attenuare gli eccessi melodrammatici conseguenti all'attaccamento di Franny al passato della propria esistenza. In un simile scenario, dominato in lungo e in largo dall'egotismo del canuto divo, è quasi naturale che tutto il resto passi in sottordine a cominciare dalle prove degli altri attori - Dakota Fanning e il Theo James di "Divergent" - calibrate all'asciuttezza dei rispettivi ruoli e continuando con l'efficacia dell'impianto drammaturgico, capace di modulare gli sbalzi emotivi in cui si produce il magnifico istrione. Senza considerare che in tempi di lacerante insensatezza l'umanità di un film come "Franny", pur con i limiti di cui abbiamo appena detto, potrebbe risultare addirittura terapeutico per chi tra gli spettatori, ha ancora paura di confrontarsi con la fragilità dei propri sentimenti.
(pubblicato su ondacinema.it)
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