Regia di Alan Taylor vedi scheda film
In una battuta ricorrente, Schwarzy si definisce «vecchio ma non obsoleto». Un po' come l'idea di riciclare - attraverso una laboriosa operazione (produttiva in primis) di reboot-remake-prequel-restyling - la saga di Terminator (tra cui va ricompresa la serie Terminator: The Sarah Connor Chronicles, durata solo due stagioni). Laboriosa, complicata, cervellotica: la (continua) sensazione di déjà vu passa attraverso una serie sterminata di situazioni già viste (il plot, certo, ma pure diverse scene-fotocopia) ai richiami diffusi in lungo e in largo durante la pellicola fino alla vera "arma finale". L'accumulo delle linee temporali (i suoi effetti, più che altro), che crea quello che si potrebbe tecnicamente definire un "gran casino".
Saranno contenti i nerd e gli amabili appassionati delle ricostruzioni cronologiche, filologiche, meteorologiche: i paradossi temporali - e gli squarci aperti e sanguinolenti nel già esile tessuto narrativo - sono così tanti che non ha (più) nessun senso rifletterci sopra.
Ha senso, semmai - una volta superato ogni balzano tentativo di paragone e ricamo pseudoteorico (in sintesi: ma manco per il faccione ringiovanito di Arnie Terminator Genisys può possedere il fascino e l'aura di cult dei primi due film) -, interrogarsi sulla natura intrinseca dell'opera stessa.
Ovvero: assolve la sua funzione di intrattenimento? E, nel panorama attuale - affollato di prodotti tutti uguali (che ai comandi della catena di montaggio hollywoodiana vi sia una "intelligenza artificiale"? La vera vittoria delle macchine, ecco!) -, ha il film una sua collocazione distinta e difendibile?
Impossibilitato a recuperare atmosfere, impressioni, suggestioni, istanze (sociali, culturali, politiche) dell'epoca e dimensione "rivoluzionaria" del capostipite, Terminator Genisys si accontenta di essere un qualunque blockbuster con l'"anima" (la nobile ascendenza) e con possibilità di generare seguito: la scena dopo i titoli di coda (una formuletta assai nota e sfruttata di questi tempi) - che persino il più ingenuo, stancamente, si aspetta - non mente.
Ciò detto, lo spettacolo - perlopiù fragoroso, traboccante (buoni) effetti speciali e musiche pompate, attraversato da un'ironia necessaria (il ghigno di "papà"-Terminator Schwarzy strappa il sorriso) e un discreto senso del ritmo (dirige l'Alan Taylor della seconda puntata cinematografica di Thor ma noto anche per aver curato la regia di diversi episodi di Game of Thrones) - c'è e non è affatto obsoleto. Standard, casomai (forse anche al fine di evitare il flop di Terminator Salvation, partito con ben altre ambizioni ma nato e defunto sotto una cattiva stella). In maniera infatti convenzionale il film scorre e scivola via, senza lasciare grosse tracce di sé: giusto qualche spunto interessante nel mezzo di una sceneggiatura farraginosa (come il ribaltamento del ruolo di John Connor, o l'elemento sentimentale tra il vecchio Terminator e Sarah), il recupero essenziale dell'ex governatore della California che sta al gioco mentre la sua presenza permette l'istantanea identificazione col "vecchio" amico.
A proposito del cast: se i bravo Jason Clarke fornisce un ritratto convincente di John Connor (ancora meglio quando fa il cattivo), il manzo inespressivo Jai Courtney nella parte di Kyle Reese puzza di blasfemia. Da segnalare, tra i comprimari, tre sprechi mica da poco: l'iconico Lee Byung-hun costretto a riprendere in maniera anonima il T-1000 già portato da Robert Patrick in T2, il grande J.K. Simmons in un personaggio forzato e limitato, e Matt Smith (sì, lui, l'undicesimo Dottore) che dà forma "umana" e voce al diabolico Skynet (buttato lì, un po' a casaccio, senza molto senso).
Ah sì, Sarah Connor: la interpreta Emilia Clarke, la mitica e bellissima Daenerys "nata dalla tempesta" (eccetera) del sunnominato Game of Thrones (curiosamente, lo stesso ruolo fu interpretato da Lena "Cersei" Headey nella serie a lei dedicata). Ora, per quanto si cerchi di dare alla figura uno spessore di eroina al passo con i tempi, il personaggio è scritto in maniera alquanto sciatta e canonica. La Clarke pare mettercela tutta, ma il modello di Linda Hamilton - la forza, il magnetismo, la fragilità e la fisicità che sapeva trasmettere - è inavvicinabile.
Ogni confronto, d'altro canto, è improponibile (e vale per tutto).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta