Regia di Alberto Moravia vedi scheda film
Questa è l'unica prova cinematografica, seppur in seguito parzialmente rinnegata, del Signor Pincherle che ha comunque ben proficuamente, in lungo e in largo, il cinema bazzicato durante la sua lunga vita; opera che, tra l'altro prodotta da un certo Marco Ferreri, faceva parte di un interessante progetto, poi abortito causa censura, denominato Documento mensile, sorta di nuovo genere cinematografico che, come una rivista di cultura, riuniva in ogni numero appunti di critica, documentazioni, racconti brevi, notazioni poetiche; sono chiamati a collaborarvi i più noti registi, e insigni personalità della cultura italiana e straniera dell'epoca, che si esprimono col mezzo cinematografico in via del tutto eccezionale. Solo quattro sono i corti di cui abbiano testimonianza: Ambienti e personaggi, di Vittorio De Sica; Appunti su un fatto di cronaca, di Luchino Visconti; La funivia del Faloria, di Michelangelo Antonioni ed appunto, Colpa del sole di Alberto Moravia.
Qui tutto si gioca in sei minuti scarsi con riprese accurate e molto dettagliate e con un intenso quartetto d'archi a far da coprotagonista come colonna sonora; in un interno borghese, su di un divano seduti una lei, bella e dominatrice ed un lui, più giovane e sottomesso. Siamo alla fine di un rapporto di coppia, i gesti di lei duri, algidi ed impassibili, le parole di lui, docili e tergiversanti. Tutto sta per precipitare e dunque definitivamente naufragare quando un improvviso, estraneo, accadimento prolungherà l'agonia dei due con una svolta repentina, complice una tenera mano ed un infinito, prolungato, bacio riparatore. Sarà vera gloria? Visti i tipi avrei i miei seri dubbi ma la verità su ciò che è accaduto sta nelle ultime righe di questo breve racconto dell'autore-regista, che riporto in calce e da cui il corto è stato in seguito riadattato.
Leggetelo e guardatelo, se lo potrete; il tema ed anche le derivazioni ad esso connesse non son certo cosa di poco conto.
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Colpa del sole
Dopo colazione, andammo a sederci il mio amico ed io in una specie di terrazza coperta o veranda che guardava al pendio della collina sulla quale sorgeva la villa. Sedemmo a prendere il caffé. A quell’ora la veranda era inondata dal sole autunnale rutilante e prezioso come un vecchio liquore; veniva fatto di chiudere gli occhi e di assopirsi in quel tepore filtrato. Davanti a noi, al di là dei vetri, la collina stendeva i suoi verdi prati in salita; fino all’antico muro di cinta, di bruni mattoni con certe finestre a occhiale incorniciate di pietra bianca. Attraverso le finestre si vedevano trascorrere ogni tanto i rari passanti di quel quartiere periferico. Il muro, si spiegò il mio ospite, in origine aveva cintato gli orti di un casino venatorio; e quelle finestre avevano avuto inferriate.
La vista dei prati verdi e folti, sparsi di radi alberi e del vetusto muro di cinta che si profilava alto contro lo sfondo vuoto del cielo azzurro, mi piacque singolarmente. Ho sempre amato i terreni incolti dentro le città, squallidi e trasognati, sospesi tra l’abbandono e l’attesa. Presi a contemplare i prati con attenzione esagerata mentre il sole fluendo abbondante attraverso i vetri faceva brillare preziosamente la caffettiera d’argento, i bicchierini di cristallo, la bottiglia piena a metà di cognac color topazio. Questo sole era caldo senza essere ardente, in tanto benessere già mi sentivo vinto da una specie di sonnolenza e socchiudevo gli occhi quando vidi una donna e un uomo scavalcare una delle finestre a occhiale ed entrare nel recinto. L’uomo era un giovanotto in maglia e berretto da ciclista, la donna, poveramente vestita, era a testa scoperta, e i capelli lunghi e ondosi le nascondevano il viso; ma c’era in essi un senso affettuoso come nelle orecchie penzolanti di certi cani. Dopo aver scavalcato la finestra, i due si guardarono un momento intorno, quindi andarono verso un punto appartato del recinto, là dove il muro piegava ad angolo retto. Un albero vi sorgeva, dal magro tronco nero, con tutte le foglie gialle come l’oro. I due incominciarono a parlare in piedi, la ragazza alquanto scostata dal compagno e questi appoggiandosi al muro con una mano.
“Chissà che hanno da darsi di così importante per nascondersi a quel modo”, disse il mio amico. E quasi subito, come per rispondere a questa domanda, l’uomo si allontanò dal muro e mise una mano in tasca. La donna fece un cenno di addio e voltate le spalle al giovanotto si avviò verso la finestra attraverso la quale erano entrati, L’uomo non la seguì, ma tolse la mano in tasca, io vidi che stringeva un oggetto scuro e poi uno sparo echeggiò, con uno schianto secco e sonoro, in qualche punto del vuoto cielo azzurro. Numerose cornacchie, spaventate dallo sparo, si levarono a volo sopra la collina. La ragazza si fermò, esitò, poi cadde a terra, supina, una gamba protesa e l’altra malamente ripiegata. Ella fece un movimento per sollevare il capo, come chi è trattenuta al suolo per le spalle, e poi la testa le ricadde indietro. L’uomo corse alla finestra e l’ultima cosa che vide fu la sua gamba che scavalcava l’apertura mentre con una mano si aggrappava alla parte superiore del muro.
La scena era stata così rapida e così imprevista che non feci a tempo a cambiare la mia partecipazione di spettatore ozioso in altra più attiva. Ma appena l’omicida fu scomparso, mi voltai subitamente eccitato verso il mio amico: volevo chiamarlo, incitarlo a correre insieme con me in soccorso della donna. Il primo sguardo che gli rivolsi mi fece cambiare idea.
Egli sedeva nel sole, le gambe accavallate, la testa rovesciata indietro sullo schienale della porta. Teneva in una mano un bicchiere pieno a metà di liquore e tra due dita dell’altra una sigaretta accesa dalla quale un sottile filo di fumo azzurro esalava pigramente nell’aria luminosa. Non poteva non aver visto il delitto: e ciò mi fu confermato dallo sguardo col quale rispose al mio. Quello sguardo pareva dire: “Non muoverti”. Egli vuotò il bicchierino senza distogliere gli occhi dalla vetrata; e lo riposò sulla tavola. Attonito ricaddi indietro e l’onda di sole in cui prima mi beavo, tornò ad avvolgermi.
Poi per un momento che mi sembrò lunghissimo, restammo in silenzio, guardando al prato in salita, alla donna rovesciata sull’erba. Il prato era deserto, immobile la figura della donna con quella gamba ripiegata e divaricata che dava così bene il senso della strage. Ad un soffio di vento dall’albero che sorgeva contro il muro, si staccarono poche foglie gialle e vennero a cadere presso la morente. Questa immobilità e questa solitudine non durarono pochi secondi durante i quali io entrai in uno stato d’animo torbido e compiaciuto.
Pensavo al sangue della donna che doveva sgorgare pianamente e bagnare la terra sotto le sue spalle: pensavo a quello che ella provava, se era ancora viva, vedendosi così abbandonata, gli occhi fissi al cielo sereno, distesa in terra, in quell’angolo di terreno incolto; pensavo con una delizia amara che ella moriva e noi non la soccorrevamo. Tra noi e lei c’era la vetrata della veranda e quel sole così dolce. E quasi invidiando la solitudine, l’abbandono della derelitta. In realtà partecipavo alla sua agonia molto più profondamente che se in quel momento mi fossi chinato su di lei a sollevarla tra le mie braccia.
Pochi secondi: poi gridai con sforzo penoso: “Bisogna correre… bisogna aiutarla”. Ma nello stesso momento vidi che era ormai troppo tardi. Una, due, tre persone già si affacciavano alla finestra del muro: già uno di loro scavalcava il davanzale, era presso la donna, si chinava su di lei, un secondo lo seguiva, un terzo correva via, come pareva, a chiamar gente. Ecco un paio di guardie scavalcare a loro volta, senza fretta, la finestra a occhiale. Dietro di loro un gruppo di sei o sette passanti. Ad un tratto tutto l‘angolo sotto l’albero dalle foglie gialle fu pieno di gente. Una guardia s’era messa davanti alla finestra e respingeva indietro i molti che volevano entrare. Due o tre teste trafelate e curiose di ragazzi spuntarono al di sopra del muro.
Ma tutto quello che avvenne in seguito, l’arrivo dell’ambulanza, il trasporto della donna, il soffermarsi dei curiosi sul luogo del delitto, mi parve infinitamente meno importante di quei dieci secondi durante i quali, inchiodato da un senso di amara e stupefatta impotenza, io ero rimasto fermo a guardare la donna che moriva e avevo invidiato la sua sorte. “Colpa del sole” mi disse il mio amico quando gli confidai questa mia sensazione. Il benessere, come un cannocchiale capovolto, rende lontane e quasi piacevoli le sciagure altrui. E quanto più sono terribili tanto più forte si fa su di noi la presa del benessere che da questo contrasto riceve un sapore e un significato nuovi.
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