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The Divergent Series: Insurgent

Regia di Robert Schwentke vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Divergent Series: Insurgent

di M Valdemar
3 stelle

 

locandina

The Divergent Series: Insurgent (2015): locandina



Una simulazione di film.
Dopo Divergent, Insurgent.
  Assurge a farsi portatrice di chissà quale istanza "rivoltosa", di chissà quale messaggio rivoluzionario. Invece è la solita, indistinguibile blockbusterata young adult. Per la precisione, il secondo capitolo della tri-quadrilogia (accipicchia che orginalità: la terza, "definitiva", puntata sarà divisa in due!) nata dalla penna di una tizia qualunque alquanto fortunata. L'insurrezione telecomandata: tutto scorre secondo programma, stilato laddove si programmano i (potenziali) successi, da menti dedite ad inseguirle, nel pieno, assoluto, religioso rispetto della vigente legislazione hollywoodiana. Tradotto: nulla che possa, nemmeno per sbaglio o per caso o per una frazione di secondo, (dis)turbare le giovini coscienze.
  Deterge la "moralina" alla base della saga - ovvero il tema del "diverso" - di tutte le possibili minacce e impurità, edulcorando possibili pensieri e letture critiche in grado di oltrepassare l'invalicabile recinzione di ciò che è permesso, accettabile/accettato, rigidamente codificato. La stori(ell)a - misera accozzaglia d'innumerevoli brandelli (cinema, tv, letteratura, fumetti), anche recenti, ricopiati e pure male - è mero, incidentale pretesto; il mezzo è l'ennesima ganza eroina bella-brava-buona-unica al mondo-tormentata una tantum; il fine è riempire le sale. Dopotutto, il target - di giovani(ssime), perlopiù - va educato.
  Asperge la stereotipatissima figura femminile di mezzi e mezzucci disciolti qua e là per enfatizzarne la carica empatica. Gli amori tribolati (lui è Quattro, e lei lo chiama proprio così: contenti loro), i sensi di colpa, anche e soprattutto infondati, assurdi (immancabili: siamo alla sagra dei clichè), gli odiatissimi nemici e le alleanze ambigue (tra i primi Kate Winslet, tra i secondi Miles Teller: faccia da stronzo, bravura innata, meriterebbe miglior sorte, l'applaudito protagonista di Whiplash), le sventure, i residuali rapporti famigliari (madre che appare in sogno - ad occhio e croce per giustificare la presenza di Ashley Judd -, fratello che appare ora di qua ora di là: per essere un "erudito" non è granché sveglio), il taglio di capelli (da chioma leonina a caschetto sbarazzino: l'hair stylist s'è guadagnata la pagnotta, ma l'effetto non è proprio una gran cosa). E i colpi di scena. Indispensabili come i primissimi piani d'una Shailene Woodley al suo peggio (impietoso il confronto - per carisma, presenza scenica - con la new entry Naomi Watts, bruna per l'occasione, illuminante come sempre).
  Sommerge il "corpus filmico" negli acquitrini paludosi del manuale dei bravi assemblatori di prodotti YA. Una piattezza terrificante: tutto va come da copione, gli effetti speciali digitali disegnano scenari da plastificato "sense of wonder" a rapido consumo/oblio, i personaggi proseguono (nel)la loro monodimensionale esistenza senza il minimo spessore, il romanticume è sempre roba per puri e casti (il sospirato bacio, e null'altro, giunge dopo un bel po', accompagnato dai «era ora!» del pubblico), la violenza (materia "primaria" per chi aspira a sovvertire l'ordine precostituito) ha contorni da cartoon ma senza ironia, il racconto procede spedito dritto verso la meta, e gli attori stanno al gioco giocando a chi risulta più anonimo, inespressivo, irritante.
  Cosparge la già risibile materia (estetica, narrativa, tematica, cinematografica) di una bella spolverata "matrixiana" (ma forse è più immediato e appropriato il confronto con il recentissimo Maze Runner: insomma, è tutto un esperimento!!). Et voilà! «Non ve l'aspettavate, eh?!» sembra vogliano dir(ci) i geniali "creatori" seduti nelle stanze dei bottoni. Ok, deriverà dal libro, evidentemente, ma è una stupidaggine (una più una meno ...). Derivativa a dir poco, l' "idea"; e senza la quale, d'altronde, non sarebbe stato possibile proseguire le fantastiche, originalissime avventure della divergente e degli altri (pacifici, eruditi eccetera eccetera). Figurarsi: lo "shock" avviene in chiusura, con i protagonisti che s'interrogano: «E ora che succede?». Bella domanda, complimenti.
  Converge, infatti, il "pericolosissimo" Insurgent, alle più classiche, comuni logiche di mercato (delle vacche) e del cinema mainstream a target adolescenziale; sulla scia del primo capitolo, naturalmente. Un film nato morto, che non ha - né trasmette - passione, prevedibile ogni aspetto, prodotto scritto diretto e recitato senza un guizzo, in maniera assolutamente calcolata, impersonale, amorfa. Un film nato per autoalimentare sé stesso (la formula vincente che sarà completata con i prossimi due capitoli); ed in cui il termine più ricorrente è, non a caso, «simulazione».
Una simulazione di film.


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