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La pelle sotto gli artigli

Regia di Alessandro Santini vedi scheda film

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La recensione su La pelle sotto gli artigli

di moonlightrosso
2 stelle

I produttori del sottobosco cinematografico nostrano degli anni settanta, in gran parte improvvisati, avevano sviluppato l'ineguagliabile talento di raschiare il cosiddetto fondo del barile per ogni film che andavano a realizzare.

Lungi dallo sperimentare nuovi generi, nuove tecniche o nuovi modi di fare cinema, erano piuttosto inclini a sfruttare un filone o addirittura un minifilone nato da un singolo film di successo sino alle sue estreme conseguenze.

Dovendo sopperire alla povertà di mezzi e attanagliati dal principale assillo che affliggeva gli operatori del cinema minore dell'epoca, ovverosia la cronica mancanza di soldi, occorreva soddisfare l'esigenza, ancor presente in un certo tipo di spettatore sprovveduto e ingenuo, di scioccare e sorprendere a tutti i costi. Così facendo, ogni film veniva portato a un tale livello di parossismo e di inverosimiglianza da far deflagrare completamente l'intero genere di appartenenza, rendendo pressochè impossibile ogni suo futuro sfruttamento.

Il film in esame vorrebbe arricchire un giallo all'italiana, che dopo i fasti argentiani stava comprensibilmente iniziando a mostrare la corda, commistionandolo con tematiche che meglio si attagliavano, a detta degli autori, ai gusti di quel pubblico di bocca buona delle terze visioni che costituiva ancora il cosiddetto zoccolo duro dei fruitori delle pellicole di genere.

La centralità dell'indagine sulla scoperta di un assassino seriale nerovestito e squartatore di donne non solo transita per la classica figura del commissario nevrotico, disincantato e stakanovista, circondato da ottusi assistenti, ma anche attraverso atmosfere e stilemi di certi horror del decennio precedente non ancora del tutto sopiti. A controcanto della tensione e dell'orrore si inframmezzano, come di consuetudine, sentimentalismo a buon mercato, una spruzzata di erotismo e qualche nudo integrale.

Alessandro Santini, classe 1922 e scomparso nel 1993 nell'indifferenza generale, da addetto alla produzione a vario titolo di films minori, venne promosso regista alla soglia della cinquantina con la complicità della factory di Renato Polselli & Co. (gente come Bruno Vani o Vincenzo Matassi figurano infatti sovente nei credits dei suoi lavori). Il compianto regista frusinate scrisse inoltre per lui il soggetto del suo film d'esordio "Questa libertà di avere le ali bagnate" (1971) e dell'introvabile tardo western "Una forca per tre vigliacchi" (1979), pellicole che rappresentano l'alfa e l'omega di questo assai poco significativo cineasta. Non disponendo nè del talento, nè tantomeno dei mezzi necessari alla realizzazione di un film dalla confezione anche semplicemente dignitosa e lavorando frettolosamente sotto l'egida del "...buona la prima", non c'è da meravigliarsi se pauperismo e squallore estetico facciano letteralmente da padroni e se maldestrìa e dilettantismo trasfigurino situazioni potenzialmente paurose e inquietanti in momenti ora imbarazzanti, ora di irresistibile comicità involontaria.

E' dunque comprensibile come l'assassino nerovestito, pur volendosi ispirare alla terrorizzante sagoma argentiana o baviana, somigli piuttosto alla caricatura di uno Zorro di terza lega, stile Giorgio Ardisson tanto per intenderci.

I delitti di donne, a parte il primo che termina con una coltellata alla malcapitata di turno con conseguente fuoriuscita di non ben inquadrate viscere, sono risolti in urla fuori campo, stante l'assai probabile latitanza dell'addetto agli effetti speciali. Impagabile rimane invece l'aggressione in un'imprecisata ambientazione agreste ai danni di una procace adolescente; questa, dopo essersi trastullata con le sue coetanee con giochi talmente demenziali da risultare perfino inadeguati a infanti ritardati, subisce un goffissimo tentativo di strangolamento da parte del nostro misterioso (si fa per dire) serial killer, messo peraltro prontamente in fuga dal padre della ragazza accorso in suo aiuto con un forcone urlando e inveendo in dialetto ciociaro.

Per il resto, primi piani di sirene della polizia (mancavano evidentemente le necessarie autorizzazioni a utilizzare le relative autombili), commissariati relegati negli scantinati e sale operatorie arrangiate in tinelli di casa (unici ambienti messi a disposizione dalla sgangherata produzione (tal "San Giorgio Cinematografica"!!)).

In un panorama attoriale che sarebbe un eufemismo definire deprimente, campeggia l'incontrastato monarca della serie Z Gordon Mitchell nei panni del Prof. Helmut, che ci regala nel finale una risata sconclusionata e idiota alla "Jimmy il Fenomeno" degna di uno dei peggiori mad-doctor della storia del cinema.

Nota di demerito anche per i suoi due assistenti: il Dottor Gianni Dani, interpretato da uno scialbo e sconosciuto Tino Boriani, accanito sostenitore delle deliranti scoperte scientifiche del Prof. Helmut tendenti a regalare all'umanità la vita eterna (sic!) e la D.ssa Silvia Pieri, impersonata dalla tal Geneviève Audry, portatrice, invece, di una visione più umana della scienza medica. Attrice dalla presenza scenica a dir poco insignificante (non sappiamo dirvi se sia effettivamente francese ovvero si tratti di un'autoctona sotto pseudonimo) e con tanto di escrescenza pelosa sul viso, è stata vista, in qualità di comprimaria, nel capolavoro trash "La valle dell'eco tonante" (1964) del mitico Tanio Boccia e sarà futura coprotagonista dell'altrettanto scult "Gli uccisori" (1977) del tal Fabrizio Taglioni.

Dialoghi stucchevoli da fotoromanzo, conditi da perle di filosofia spicciola e siparietti sentimentali da far cadere le braccia, procedono lungo una storia nella quale il tedio e lo sbadiglio sono destinati a prendere inevitabilmente il sopravvento. Tutto ciò sino all'inaspettato colpo di scena finale, vero e proprio capolavoro di delirio assoluto del quale preferisco non anticiparvi nulla (davvero vedere per credere!!!).

Assai migliore il gineceo delle prostitute vittime del killer, come le polpose Ada Pometti, caratterista di lungo corso di provenienza c.s.c. e Mirella Rossi, abituale musa polselliana. Le espressioni decisamente trash dalle stesse utilizzate per sedurre il mad-doctor del calibro di "...fammi vedere il colore dei tuoi occhi che io ti faccio vedere il colore delle mie mutande", non possono non rimanere scolpite nelle nostre memorie di esteti del brutto.

Quasi passabile il commissario interpretato dal modesto caratterista Ettore Ribotta, che qui vediamo in uno dei ruoli più corposi della sua non eccelsa carriera e che non si sottrae di certo alla logica trash della pellicola. Alla rivelazione del medico legale che rinviene pelle di cadaveri in decomposizione sotto le unghie delle prostitute uccise, sbotta seraficamente: "Non posso credere che un cadavere, per giunta un cadavere putrefatto, vada a puttane e poi le ammazzi!!".

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